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Altro essendo dagli altri essendo te: il tema dell'alteritá nell'opera dí Ludovíca Ripa di Meana

  • Autores: Andrea Casoli
  • Directores de la Tesis: Carmen Ramírez Gómez (dir. tes.), Mercedes Arriaga Flórez (dir. tes.)
  • Lectura: En la Universidad de Sevilla ( España ) en 2012
  • Idioma: italiano
  • Tribunal Calificador de la Tesis: Andrés Pociña Pérez (presid.), María Dolores Ramírez Almazán (secret.), Aurora López López (voc.), Roberto Trovato (voc.), Antonella Cagnolati (voc.)
  • Texto completo no disponible (Saber más ...)
  • Resumen
    • ANDREA CASOLI Altro essendo dagli altri essendo te.

      Il tema dell¿alterità nell¿opera di Ludovica Ripa di Meana INDICE INTRODUZIONE 7 CAPITOLO PRIMO Per un ritratto della scrittrice da lettrice 17 CAPITOLO SECONDO Autobiografico altro: Diligenza e voluttà 29 CAPITOLO TERZO Autobiografico privato: Asma 59 CAPITOLO QUARTO Il nodo alla cravatta 107 CAPITOLO QUINTO La poetica della cantastorie 141 4 CAPITOLO SESTO Forma e sostanza della tragedia greca classica 157 CAPITOLO SETTIMO Titoli 165 CAPITOLO OTTAVO Altro essendo dagli altri essendo te 175 CAPITOLO NONO Soggetto 225 CAPITOLO DECIMO Arcaico 243 CONCLUSIONE 251 RESUMEN EN ESPAÑOL 257 BIBLIOGRAFIA 269 Fare la lagna «il mondo che cattivo! che mondo porco!» può dare sollievo, ma se tu pure non ti senti porca altro essendo dagli altri essendo te dentro l¿immonda alterità del mondo, al mondo che ci fai, che ci facciamo? Purezza è bello, ma, scusa un secondo, tu sai parlarci coi passeri? Io no.

      Ludovica Ripa di Meana, La sorella dell¿Ave INTRODUZIONE Questa ricerca si propone di analizzare i testi narrativi e drammaturgici di Ludovica Ripa di Meana,1 seguendo come fil rouge della lettura il tema dell¿alterità. 1 Inserisco alcuni brevi cenni sulla biografia dell¿autrice, ritenendoli non inutili per i destinatari di questo testo.

      Ludovica Ripa di Meana è nata nel 1933 a Roma, dove vive. Ha lavorato come redattrice in editoria con Elio Vittorini alla Mondadori e con Giorgio Bassani alla Feltrinelli; come aiuto-regista di Cesare Zavattini, Franco Brusati ed Enzo Muzii nel cinema e di Franco Zeffirelli in teatro. È stata giornalista per il «Contemporaneo» e «L¿Europeo». Per la televisione ha realizzato inchieste, programmi culturali e di varietà e la serie di interviste-ritratto «Gli intrattabili» (tra gli altri, Pintor, Montanelli, Strehler). È stata regista di Carlo Emilio Gadda per la serie televisiva «Sulla scena della vita». Ha scritto per il cantautore Adriano Celentano, mimandone l¿affabulazione stralunata, Il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai (Sperling & Kupfer, 1982). Ha rielaborato in Dietro l¿immagine (Longanesi, 1987) una serie di lezioni del grande critico d¿arte Federico Zeri. Da una lunghissima conversazione con Gianfranco Contini ha ricavato Diligenza e voluttà (Mondadori, 1989), libro che il grande filologo ha definito «la mia prima autobiografia». Il suo esordio, con il romanzo in versi La sorella dell¿Ave (Camunia), è avvenuto nel 1992 a cinquantanove 8 Pur avendo ricevuto alcune opere di questa scrittrice il consenso sia dei critici letterari militanti sia di quelli accademici (tra gli altri, solo per fare alcuni nomi, Cesare Garboli e Angelo Guglielmi, Cesare Segre e Jacqueline Risset),2 pur essendo stati messi in scena diversi suoi testi teatrali,3 sia da compagnie con giovani attori in seguito rivelatisi di sicuro talento (Vinicio Marchioni), sia da attori ormai da decenni tra i più affermati nel panorama nazionale (Elisabetta Pozzi e Franco Branciaroli), pur avendo ricevuto la sua tragedia Kouros uno dei più importanti riconoscimenti nazionali per la poesia (il Premio Viareggio),4 mancano ancora per Ludovica Ripa di Meana saggi che ne analizzino anche solo parzialmente l¿opera e la figura di anni. Rimando alla prima sezione della bibliografia (qui a pagina 000), per la rassegna completa delle sue opere edite.

      2 Nella seconda sezione della bibliografia (qui a pagina 100) si dà conto della rassegna di tutti gli interventi critici sulle singole opere di Ludovica Ripa di Meana.

      3 In coda alla prima sezione della bibliografia (qui a pagina 98) si dà informazione precisa dei testi teatrali e delle loro messe in scena.

      4 Nel 2002 la sezione Poesia del Premio Viareggio assegnò la vittoria ex aequo alla tragedia Kouros (Nino Aragno editore) di Ludovica Ripa di Meana e alla raccolta di poesie La stortura (Garzanti) di Jolanda Insana.

      9 intellettuale, al punto che lei stessa si definisce «una clandestina »5 all¿interno del panorama letterario nazionale.

      Non sarebbe di alcun rilievo, in questa sede, stabilire quali siano gli elementi che hanno concorso a questa lacuna critica e quale sia il loro peso nella faccenda, se non fosse che alcuni di questi elementi risultano invece ai miei occhi come gli aspetti più affascinanti dell¿opera e dell¿universo culturale di questa scrittrice.

      Innanzi tutto la difficile e quasi impossibile collocazione delle opere di Ludovica Ripa di Meana all¿interno di un genere e di una tradizione immediatamente riconoscibile: la sua irrimediabile originalità.

      Poi l¿istintiva, ma non per questo meno consapevole, scelta di scrivere romanzi e testi teatrali rigorosamente in versi.

      Le molte recensioni e interviste che hanno accompagnato l¿uscita dei libri e la messa in scena degli spettacoli di Ludovica Ripa di Meana e la concomitante assenza di interventi critici di maggior respiro sul suo lavoro farebbero preferire un saggio di carattere monografico, una trattazione dei vari temi che hanno 5 Luigi Vaccari, Ho scritto diciassettemila versi ma in Italia sono una clandestina, in «Il Messaggero», 17 settembre 2002.

      10 animato il lavoro di questa scrittrice riuniti in una specie di voce enciclopedica che puntasse all¿esaustività, quasi un capitolo di storia della letteratura, un ritratto a tutto tondo.

      Alcune ragioni mi spingono invece a prediligere una lettura ravvicinata e serrata dei testi, quasi un «close reading» alla maniera del primo New Criticism o, meglio ancora, con tutti i rischi possibili di arbitrarietà, l¿atteggiamento della critica fisheriana del «reader-reponse»6.

      Innanzi tutto la scelta di una lettura personale dei testi risponde alla necessità di istituire o quanto meno di provare a istituire una giusta distanza, quella che dovrebbe contraddistinguere una lettura critica, dall¿autrice, che conosco personalmente da diversi anni, avendo io lavorato come redattore nella casa editrice che ha pubblicato i suoi ultimi tre libri.7 Mi è parso che fosse quindi una buona strada quella di impostare e condurre questa ricerca in una sorta di corpo a corpo coi testi, avvalendomi solo delle recensioni e delle interviste, certo anche delle informazioni derivate dalla mia conoscenza personale dell¿autrice, ma non verificando gli esiti 6 Stanley Fisher, C¿è un testo in questa classe?, Einaudi, Torino 1980.

      7 Si tratta di Kouros (2002), Teodia (2003) e La fine degli A (2006), pubblicati da Nino Aragno editore.

      11 della mia analisi attraverso un dialogo ad hoc, non puntualizzandone o chiarendone gli elementi attraverso il confronto con le opinioni di lei, non concludendo questa ricerca con un¿intervista, come avrebbe benissimo potuto essere. Come a lasciare la verifica di questa lettura, della sua effettiva qualità, al di fuori del dialogo e del confronto con l¿autrice, in un secondo momento, a cose fatte.

      Uno dei grandi lettori e critici del Novecento letterario italiano, Cesare Garboli, ha sostenuto a più riprese d¿essersi occupato, fra i contemporanei, quasi esclusivamente di scrittori a cui era legato da affetto personale, facendone addirittura una scelta, una dichiarazione di metodo critico. Non intendo dire che mi propongo di fingere di non conoscere l¿autrice e le sue opinioni a proposito della sua scrittura, ma scelgo di correre il rischio dell¿errore, nella mia lettura, pur di condurla all¿insegna della libertà personale. Affidandomi al solo confronto con i testi, prediligendo dunque un tema, quello dell¿alterità, che mi appassiona e che mi pare sia rilevante all¿interno delle opere di Ludovica Ripa di Meana, ben consapevole che si tratta solo di uno dei tanti possibili all¿interno di una produzione ricca e variegata come quella offerta dai suoi romanzi e delle sue opere teatrali.

      12 La maggior parte dei testi di Ludovica Ripa di Meana ha poi, a mio avviso, la caratteristica di generare una sorta di provocazione individuale, personalissima, nel lettore.

      In più, la sua idea di realismo la induce a mettere in scena la vita o a raccontarla quasi da testimone, occultando ogni filtro di letterarietà, con un effetto come di presa diretta, con l¿unica intermediazione della propria voce.

      Questo fa sì che non sia quasi mai indispensabile o comunque utile individuare nelle pagine dei suoi testi riferimenti letterari o filosofici, che pure non mancano, ma che restano sempre di gran lunga secondari rispetto invece alla dimensione testimoniale tipica della narrazione e della drammaturgia di Ludovica Ripa di Meana.

      Una dimensione testimoniale che implica l¿esposizione in prima linea dell¿autrice e allo stesso tempo la convocazione in prima linea del lettore o dello spettatore. Individualmente.

      Entrambi soli.

      L¿impressione che ha accompagnato la mia frequentazione dei testi di Ludovica Ripa di Meana è quella di una radicalizzazione, di una estremizzazione delle due solitudini che contraddistinguono la scrittura e la lettura.

      13 Il capitolo primo, «Per un ritratto della scrittrice da lettrice» individua gli elementi della cultura e della personalità di Ludovica Ripa di Meana che fanno di lei una lettrice libera e «impregiudicata», a partire dalla formazione da autodidatta, attraverso il lavoro redazionale all¿interno di alcune tra le più importanti case editrici italiane (Mondadori e Feltrinelli), per arrivare alle collaborazioni giornalistiche con alcune tra le maggiori testate del Secondo Novecento («Il Contemporaneo» e «L¿Europeo»).

      Il capitolo secondo, «Autobiografico altro: Diligenza e voluttà» prende in analisi il libro - intervista a uno dei massimi filologi del Novecento italiano, Gianfranco Contini: Diligenza e voluttà. Un¿autobiografia a quattro mani, dimostrando come la costruzione di una voce narrativa unica che riunisce i due astanti, lei che interroga e lui che risponde, è frutto di un¿altissima concezione dell¿altro e di una moderna concezione relazionale del sé.

      Il capitolo terzo, «Autobiografico privato: Asma» indaga fra le pagine del testo inedito Asma, identificando come suo genere di appartenenza l¿autobiografico, sia per la libertà con cui il testo spazia fra i vari generi letterari (romanzo, diario, poemetto in prosa, teatro), sia perché, sulla scia della lettura 14 della filosofia della narrazione elaborata da Adriana Cavarero, Asma si rivela, prima ancora che un racconto di sé, un racconto a sé.

      Il capitolo quarto, «Il nodo alla cravatta», si concentra su una sequenza del testo inedito Asma dedicata al ricordo degli ultimi incontri di Ludovica Ripa di Meana con lo scrittore Carlo Emilio Gadda. Si tratta di pagine di diario dell¿anno 1973 che possono essere lette come un¿implicita dichiarazione di poetica sub specie narrationis.

      Il capitolo quinto, «La poetica della cantastorie», analizza la scelta di Ludovica Ripa di Meana di scrivere in versi, sia nella narrazione dei romanzi sia nella drammaturgia delle opere teatrali, in maniera coerente con quella che ho definito la poetica della cantastorie, in cui la dimensione corporale del testo, ovvero la sua vocalità, ha un ruolo determinante.

      Il capitolo sesto, «Forma e sostanza della tragedia greca classica» recupera elementi del mondo della tragedia greca classica, che sembrano agire nell¿universo culturale di Ludovica Ripa di Meana in forme latenti, per vari aspetti e consonanze, ben prima della scrittura della tragedia Kouros.

      Il capitolo settimo, «Titoli», passa in rassegna i titoli delle opere di Ludovica Ripa di Meana in cui il tema dell¿alterità è 15 declinato in varie forme, a ulteriore riprova della sua importanza all¿interno della Weltanschauung di questa scrittrice.

      Il capitolo ottavo, «Altro essendo dagli altri essendo te», che prende a titolo un endecasillabo esemplare del tema dell¿intera ricerca, indaga come il tema dell¿alterità viene sviluppato e articolato attraverso i personaggi e le storie ¿inventate¿ da Ludovica Ripa di Meana.

      Il capitolo nono, «Soggetto», si propone di far dialogare i testi di Ludovica Ripa di Meana, con alcuni temi di alcune filosofe femministe che si sono occupate d¿identità e nouve soggettività: dai «corpi che contano» di Judith Butler alla performatività dei generi di Donna Haraway, dai «soggetti eccentrici» di Teresa de Lauretis alla «soggettività nomade» di Rosi Braidotti, dall¿«ordine simbolico della madre» di Julia Kisteva e di Luisa Muraro alla filosofia della narrazione di Adriana Cavarero.

      L¿inclinazione di Ludovica Ripa di Meana a un discorso personale, individuale, apparentemente autonomo rispetto a queste indagini filosofiche e tutto imperniato su una funzione che definirei quasi testimoniale, conduce un percorso che per molti aspetti interseca quello delle pensatrici sopra citate: la giustapposizione di alcuni esiti delle riflessioni filosofiche e 16 politiche di queste con quelli letterari della scrittrice offre un¿interessante chiave di lettura della sua opera, in particolar modo per quello che riguarda il tema dell¿alterità che caratterizza alcuni dei suoi testi migliori.

      Il capitolo decimo, «Arcaico», come una sorta di appendice, indaga alcune riletture moderne dell¿Orestea di Eschilo, in particolar modo soffermandosi sulle affinità tra la concezione di realismo espressa dai testi di Ludovica Ripa di Meana e quella espressa dalle tele del pittore inglese Francis Bacon.

      CAPITOLO PRIMO Per un ritratto della scrittrice da lettrice Io mi sforzo di credere che le coincidenze siano talvolta segni o così mi piace, all¿occorrenza, interpretarle. I traslochi, come gli esami, non finiscono mai: le loro conseguenze si scontano a lungo. Alcuni anni fa, a seguito del mio ultimo cambio di casa milanese, i pochi libri che avevo con me rimasero per diverso tempo dentro gli scatoloni con cui avevano abbandonato il vecchio appartamento per il nuovo. Così, cercando un libro che mi occorreva in vista di un convegno in cui dovevo parlare proprio dei testi di Ludovica Ripa di Meana, mi è capitato di non riuscire a trovarlo e di ritrovarmene invece per le mani un altro che avevo comprato tempo prima ripromettendomi di leggerlo, cosa che non avevo ancora fatto. Si trattava degli 18 Scritti servili di Cesare Garboli,1 una raccolta di sue introduzioni o prefazioni accomunate dal fatto di raccontare una storia o un evento di seduzione. C¿è dentro il suo amatissimo Molière, un Longhi giovanissimo, ci sono soprattutto i suoi amici, Penna, la Ginzburg, la Morante, Delfini (l¿introduzione ai Diari la conoscevo già, come una delle letture più ostiche che si possano fare nel momento in cui si va perdendo un amico, e a me era capitato alla fine degli studi universitari).

      Quel libro incontrato cercandone un altro si è rivelato prezioso, indicando un punto di vista nuovo sul percorso e sull¿evoluzione della scrittura di Ludovica Ripa di Meana e generando diversi spunti di riflessione.

      Il primo, certo, di carattere puramente biografico, bibliografico e storico: Cesare Garboli è stato un attento recensore di alcuni libri di questa scrittrice,2 oltre che un suo amico personale; è stato l¿autorevole e anche autoritario presidente del Premio Viareggio, convinto sostenitore delle qualità del libro di Ludovica Ripa di Meana, Kouros, fino a trascinare, di prepotenza, la giuria del premio ad assegnarle la vittoria finale.3 1 Cesare Garboli, Scritti servili, Einaudi, Torino 1989.

      2 Si veda nella seconda sezione della bibliografia qui a pagina 102.

      3 Si veda qui la nota 4 a pagina 6.

      19 Ma poi, ecco l¿elemento di maggior rilievo: quel titolo ha acceso in me la scintilla che ha illuminato un aspetto fondamentale della formazione culturale e anche professionale di Ludovica Ripa di Meana, caratterizzandone, a mio avviso, in modo significativo e peculiare l¿impostazione della voce autoriale.

      I cosiddetti scritti servili sono stati a lungo il pane quotidiano di Ludovica Ripa di Meana, che per anni ha condotto interviste per importanti periodici e ha scritto per l¿editoria, il cinema, la radio, la televisione, praticando molte di quelle che potremmo definire forme indirette o mediate o dimidiate e in qualche modo minori dell¿autorialità, della creatività: il lavoro redazionale, specie nella stesura dei paratesti o nell¿interazione con l¿autore a proposito del testo vero e proprio; il giornalismo culturale, specie nella forma dell¿intervista; la collegialità del lavoro autoriale all¿interno dei programmi televisivi o del lavoro di regia cinematografica o teatrale; infine il vero e proprio ghost writing.

      Certo queste forme indirette o minori della scrittura non rappresentano propriamente l¿espressione completa e personale dell¿autrice, che non è mai del tutto sola e dunque interamente libera nelle scelte; allo stesso tempo rispondono a 20 un¿inclinazione speciale di Ludovica Ripa di Meana. Oppure è altrettanto plausibile il processo contrario: attraverso queste esperienze professionali, la scrittrice ha potuto sviluppare una peculiare capacità di osservazione dell¿altro, una capacità di modulare la propria voce in sintonia con quella dell¿altro, in una parola il proprio talento per il dialogo nell¿accezione più alta del termine. Quella speciale capacità di farsi autrice, di dirsi attraverso la dimensione dell¿alterità che è stata analizzata con acume da Adriana Cavarero nel saggio Tu che mi guardi, tu che mi racconti.4 Queste forme di scrittura, praticate nei diversi ambiti professionali a cui l¿autrice si è impiegata, ne costituirono di fatto anche la scuola: il percorso di formazione culturale di una ragazza che, a quindici anni, aveva dovuto abbandonare gli studi regolari alla fine del ginnasio per cominciare a lavorare.

      Queste esperienze risultano quindi un elemento fondamentale nella definizione dell¿identità culturale di Ludovica Ripa di Meana, maturata all¿insegna di un¿irregolarità che è all¿origine della sua grande libertà di lettrice. 4 Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 2001.

      21 Chiunque abbia svolto il lavoro editoriale sa bene a quale ampio ventaglio di letture sia indotto chi è sottoposto ad applicarsi ai libri che passano per una redazione. Il gusto personale, gli interessi e le passioni sono gli ultimi elementi chiamati in causa da questo genere di professione, soprattutto all¿inizio. A prevalere è invece la duttilità e la capacità di applicare le proprie competenze e affinare le proprie qualità di lettore alle necessità dell¿occorrenza.

      Non si tratta qui di provare a impostare le premesse per un¿indagine intertestuale o per la ricostruzione di un percorso di formazione culturale irregolare, condotto al di fuori degli schemi scolastici ordinari. Quello che preme non è delineare un¿eterodossia rispetto al canone delle letture scolastiche, dei classici o dei testi in voga o alla moda, negli anni tra i Quaranta e i Cinquanta, che coincidono con quelli della formazione della scrittrice. M¿interessa invece attirare l¿attenzione sul fatto che nella formazione di Ludovica Ripa di Meana in quanto lettrice ha avuto un¿incidenza fondamentale la forzata e precoce entrata nel mondo del lavoro.

      Insomma, per un ritratto della scrittrice da lettrice, non dovremo certo mirare all¿immagine di una biblioteca ordinata secondo i criteri di un cursus studiorum, quanto piuttosto a quel22 la di una redazione o di una libreria; non tanto alla costruzione di percorsi canonici, quanto piuttosto alla successione di giustapposizioni imposte dalla casuale necessità professionale o dettate dalla passione personale.

      Nella convinzione che non esista talento che meriti attenzione se non allenato, se non messo alla prova nella disciplina (anche la più irregolare) dell¿esercizio, credo che vada tenuta presente, come premessa fondamentale al discorso che intendo portare avanti con questa indagine sui testi di Ludovica Ripa di Meana la peculiare natura di lettrice ¿professionale¿ e autodidatta prim¿ancora che ¿scolastica¿ di questa scrittrice.

      Dalla qual cosa deriva non solo un atteggiamento più incline alla libertà e meno ossequioso della tradizione o dei canoni, ma anche e soprattutto una disposizione ad affrontare i testi da una specola tutta personale, individuale, persino a tratti deliberatamente solitaria, senza i filtri preliminari della critica o dello studio. E questa irregolarità, questa libertà, questa sfrontatezza e inclinazione a vivere il rapporto con i testi in prima linea, corpo a corpo, tornano nelle pagine di Ludovica Ripa di Meana, soprattutto in quelle ¿ e sono talvolta tra le migliori di questa scrittrice ¿ dai toni volutamente scandalosi, 23 finanche violenti, che conducono il lettore a confrontarsi con le provocazioni del testo.

      La propensione interrogativa, l¿acume dell¿analisi, la perspicacia e l¿intuito con cui Ludovica Ripa di Meana fiuta l¿interlocutore, la curiosità mista a coraggio e libertà hanno fatto di lei un¿intervistatrice formidabile.

      In fondo, leggere equivale a porre domande al testo che abbiamo per le mani e, se si tratta di un testo di qualità, leggere equivale a farsi leggere, a leggere noi stessi attraverso le pagine del libro: ritrovare le parole che ci appartengono, che ci descrivono, nelle sue. È un dialogo silenzioso, quello tra il testo e il suo lettore, che ricalca le dinamiche di quello che intercorre tra due persone.

      E, anche quando non si trovano risposte, o anche quando non si trovano quelle desiderate, l¿avventura si consuma nel tentativo di scoprire qualcosa di sé attraverso la voce dello scrittore, attraverso il riconoscimento del suo «volto nelle parole».5 La vera lettura, al pari della scrittura, trova la sua 5 Il riferimento, nello specifico, è all¿omonimo libro di Ezio Raimondi, Il volto nelle parole, Il Mulino, Bologna 1988, ma più in generale il rimando è alla memoria delle lezioni seguite all¿università di Bologna e ai molti suoi saggi letti nel corso degli anni. Alcuni libri più recenti propongono, con tono conversevole, riflessioni e analisi a proposito della lettura e del 24 ragione nel gesto, prima ancora che nel risultato dell¿operazione. Quando a Lev Tolstoj chiesero perché avesse scritto Anna Karenina, disse che per rispondere a quella domanda avrebbe dovuto riscrivere da capo il romanzo; come a suggerire che la risposta è contenuta nel movimento, il senso è racchiuso nel percorso.

      La lettura comporta dunque un¿etica che ci guida all¿interno del «vivente polipaio della comunicativa umana», come lo chiamava Carlo Emilio Gadda, tanto che si tratti di libri quanto di persone.

      Se l¿uomo ha ancora bisogno» come scrive Ezio Raimondi «di ricordare e di riflettere raccogliendosi su se stesso, se la sua esperienza non si consuma nella distrazione, come avvertiva Walter Benjamin, allora nella pluralità delle sue manifestazioni la letteratura ha ancora un compito da assolvere: ed è l¿invito suasivo a non dimenticare se stessi, a indagare il proprio rapporto con l¿altro, a guardare nel fondo della parola sino a ritrovarvi il suo linguaggio della mondo dei libri, che hanno attraversato la sua intera attività di critico letterario: Un¿etica del lettore, Il Mulino, Bologna 2007, Il senso della lettura, Il Mulino, Bologna 2008 e Le voci dei libri, a cura di P. Ferratini, Il Mulino, Bologna 2012.

      25 prossimità e a sentirne l¿eco profonda che invade ognuno di noi, come presenza di un corpo vivo in un mondo vivo che può essere salvezza quanto minaccia, negazione e affermazione, e certo esige il riconoscimento del nostro essere sempre in cammino alla ricerca di un senso, di una figura ove anche il disordine si trasformi in presagio di ordine.6 Lascio alle pagine del capitolo quinto, «La poetica della cantastorie», il compito di argomentare quanto sia rilevante ai fini di tutto questo la scelta operata da Ludovica Ripa di Meana di scrivere romanzi e testi teatrali in versi anziché in prosa.

      Rimane, infine, da sottolineare, in conclusione di questa divagazione, credo non inutile, sulla lettrice che precede necessariamente l¿autrice, che la storia editoriale di Ludovica Ripa di Meana è legata a doppio filo a quella di Raffaele Crovi. Sia per il suo esordio sia per la pubblicazione di tutti i suoi testi.

      Un¿enorme differenza di temperamento, di carattere e anche di gusti letterari ha contraddistinto queste due persone; li accomunava invece l¿intelligenza delle pagine dei libri non inferiore a quella dei caratteri umani: una vorace e insaziabile curiosità per l¿altro, accompagnata da un atteggiamento di 6 Ezio Raimondi, Un¿etica del lettore, Il Mulino, Bologna 2007, pagina XX.

      26 ascolto e di attenzione, che deve non poco all¿evangelico amore per il prossimo. Entrambi lettori sensuali, capaci cioè del dialogo più intenso e personale, intimo con il testo.

      Credo che in questa libertà, in questa disposizione personale e istintuale, prima ancora che critica e strumentale, abbia giocato in entrambi un ruolo fondamentale la formazione non accademica, un percorso di lettori non scolastici.

      Elio Vittorini, per cui lavorarono insieme, giovanissimi, Raffaele Crovi e Ludovica Ripa di Meana in Mondadori, nella Notizia per avvertenza che fa da nota di curatela a I musulmani in Sicilia di Michele Amari, scrive, con un evidente ricordo della propria esperienza di autodidatta: E l¿uomo soltanto se legge come un ragazzo può trarre significato dai libri. E solo se fatta leggendo come un ragazzo la cultura può essere, quale dev¿essere, una condizione dell¿uomo. Con la filologia, col tecnicismo, con la scienza esplicitamente scienza, oggi si rischia di impedire per il resto dei tempi che gli uomini leggano come ragazzi.7 7 Michele Amari, I musulmani in Sicilia, a cura di Elio Vittorini, Bompiani, Milano 1942, p. 13.

      27 Rubando quest¿immagine a uno dei lettori di maggior intuito e talento del Novecento italiano, credo che il ritratto della scrittrice Ludovica Ripa di Meana da lettrice non lo si possa dipingere se non come quello di una scrittrice che continua a leggere (e a scrivere e a vivere la cultura) con il cuore di una ragazza.

      CAPITOLO SECONDO Autobiografico altro: Diligenza e voluttà Se si eccettua il primo romanzo, La sorella dell¿Ave (e, a voler essere puntuali fino all¿intransigenza, solo la prima parte di quello), l¿opera di Ludovica Ripa di Meana appare sostanzialmente estranea alla dimensione autobiografica.

      Ulteriore eccezione all¿eccezione, il testo Asma, che avrebbe costituito, se fosse approdato alla pubblicazione, l¿esordio alla scrittura autoriale piena di Ludovica Ripa di Meana; trattandosi però di un testo rimasto inedito, mi piace l¿idea di riservargli uno spazio a sé, nel capitolo a seguire, quasi appendice e variazione sul tema dell¿autobiografico: da ¿altro¿ a ¿privato¿; sia perché cronologicamente l¿autobiografico altro costituisce un¿esperienza precedente e maggiormente articolata rispetto a quello privato; sia perché il fatto che il secondo sia rimasto inedito, mentre il primo ha ottenuto notevoli riscontri 30 di popolarità, è elemento cui riservare attenzione, cui attribuire un particolare significato.1 Sotto l¿etichetta di «autobiografico altro» si possono annoverare tre libri pubblicati a opera di Ludovica Ripa di Meana, da leggersi come la punta di un iceberg, il risultato più maturo di una lunga frequentazione dell¿ambiente letterario e giornalistico, teatrale e televisivo, l¿esito finale di una carriera fitta d¿interviste: Il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai per Adriano Celentano,2 Dietro l¿immagine. Conversazioni sull¿arte 1 Un¿appendice all¿eccezione, senza che la regola enunciata possa esserne sminuita, è costituita poi dalle poesie: raccolte sotto il titolo Rime, l¿autrice me ne ha messo a conoscenza di recente.

      2 Adriano Celentano, Il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai, Sperling & Kupfer, Milano 1982. Di seguito il testo di quarta di copertina: «Il Paradiso è un cavallo bianco che non suda mai: di paradossi come questo, espressi in una lingua sincopata, tutta ritmo, come di chi parla cantando, Celentano ne ha seminati a piene mani nelle pagine di questo libro. Ma a voler ben vedere, quelli di Celentano non sono paradossi.

      Sono, per lui, la semplice verità: esperienze di vita che si fondono in un nevrotico caleidoscopico turbinio di immagini fantastiche, attese, speranze, illusioni di un Candido dei nostri giorni che ha un occhio rivolto al cielo e l¿altro al box office. Ogni canzone di Celentano, ogni suo film e ancor più questo suo libro scritto in presa diretta, raccontato a braccio nel corso di molte notti insonni, accreditano il mito di un uomo semplice, genuino, che ha il coraggio di operare delle scelte, che ho il dono d vivere e di esprimersi naturalmente senza ricorrere i modo artificioso agli additivi d¿uso: cultura, impegno sociale, proteste, eversione, ecc. In questo, forse, è la ragione del suo straordinario successo che dura senza 31 di leggere l¿arte per Federico Zeri3 e Diligenza e voluttà con Gianfranco Contini.4 flessioni da venticinque anni e che si è esteso dal campo specifico della canzone al mondo dello spettacolo più in generale, facendo di lui un uomo record, dagli incassi senza precedenti. Dopo tante offerte e altrettanti rifiuti e tentennamenti, Celentano si è deciso a buttar fuori per la prima volta tutto quello che non ha mai detto. Ne è nato un libro strano, diverso, in cui Celentano parla di tutto, anche di Dio, chiamandolo semplicemente ¿Lui¿ e mescolandolo al profano della sua vita con grande semplicità e un pizzico di calcolata civetteria. Un libro tutto da gustare. Perché si ride.

      Perché ci si commuove. Perché è un libro di Celentano, insomma. Un libro che lascia, in chi lo legge, la sensazione che sia molto ancora quello che Celentano deve dire».

      3 Federico Zeri, Dietro l¿immagine. Conversazioni sull¿arte di leggere l¿arte, Longanesi, Milano 1987. Di seguito il testo di quarta di copertina: «Nella primavera del 1985, da lunedì 15 a venerdì 19 aprile, Federico Zeri tenne, presso l¿Università Cattolica di Milano, cinque lezioni su ¿l¿arte di leggere l¿arte¿: che cosa ci dice un¿opera d¿arte; che cosa significa e cosa rappresenta come testimonianza della civiltà e della cultura che l¿hanno prodotta; quale preparazione storico-culturale è necessaria per la sua comprensione. Gli osservatori più attenti colsero immediatamente l¿importanza dell¿occasione. «Non avrei molti dubbi¿, scrisse Renzo Zorzi, ¿nel ritenere le cinque lezioni (da Zeri caparbiamente chiamate conversazioni) ll¿evento culturale di gran lunga più importante della primavera milanese, che sarà ricordato per molto dal pubblico strabocchevole di studenti, ma anche di storici dell¿arte, critici, funzionari di musei, antiquari, insegnanti, collezionisti, che le hanno seguite con un¿attenzione e una partecipazione di cui gli scroscianti, lunghissimi applausi conclusivi non bastano forse a rivelare il senso e l¿intensità¿. I presenti, osservò Giovanni Testori, hanno avuto ¿la precisa e rimunerante coscienza di che significhi, ancor oggi, apprendere e imparare. Il tema è la storia dell¿arte, anzi come a essa ci si possa e debba avvicinare; ma le 32 lezioni offere così liberalmente dal grande critico potrebbero, e dovrebbero, riguardare tutte quante le discipline. Del resto, proprio la connessione di quelle discipline dentro il moto, ora lucente, ora buio, della storia, sembra essere il tessuto, ricchissimo e splendidamente posseduto, su cui Zeri ha impostato la sua stessa metodologia¿. Quelle conversazioni, condotte senza traccia scritta, sarebbero rimaste vive soltanto nel ricordo di chi vi assistette, se alcuni volonterosi non avessero provveduto, contravvenendo al¿esplicito divieto di Federico Zeri, a registrarle. Dalle registrazioni, trascritte con amorevole cura da Ludovica Ripa di Meana e da lei riviste e integrate con la collaborazione dello stesso autore, nasce ora questo libro: un¿impareggiabile guida per chi vuole accostarsi allo studio o anche solo al godimento delle opere d¿arte».

      4 Ludovica Ripa di Meana - Gianfranco Contini, Diligenza e voluttà.

      Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Longanesi, Milano 1989. Di seguito il testo in quarta di copertina: «Gianfranco Contini è nato nel 1912 a Domodossola, dove ha trascorso un¿infanzia felice e solitaria (sua madre era stata maestra, suo padre funzionario delle ferrovie); e a Domodossola è tornato ad abitare in questi anni, massimo italianista e studioso vivente di lingue e letterature romanze, per riconoscimento pressoché universale. Compiuti gli studi superiori a Pavia, a ventisei anni consegue la cattedra di Filologia romanza a Friburgo (Svizzera). Nel ¿44 vive di persona la fugace epopea della repubblica partigiana della val d¿Ossola. Dopo la guerra insegna all¿Università di Firenze, poi ala Normale di Pisa. Le tarde conseguenze di un ictus del ¿70 lo menomeranno spietatamente nel fisico, senza appannarne l¿ardimento intellettuale, la generosità, l¿ironia. La sua produzione è estesissima, ma rigorosa, asciutta (non ha scritto un rigo di troppo, e a questo è forse dovuta la sua fama di ¿scrittore difficile¿): sul versante sotirco-filologico si segnaleranno almeno l¿edizione delle Rime di Dante e quella dei Poeti del Duecento (corredate da schede e note di preziosa densità), l¿edizione critica del Fiore, pgine cruciali su Dante, Petrarca, Ariosto¿, il basilare Breviario di Ecdotica; sul versante della critica militante, saggi memorabili (Gadda, Montale, Pasolini, Pessoa, Céline¿) poi raccolti in volumi miscellanei, da 33 Esercizî di lettura a Ultimi esercizî ed elzeviri; sul crinale, la Letteratura dell¿Italia unita, ¿bilancio-campionario¿ dell¿ultimo secolo di patrie lettere, che naturalmente ha scandalizzato molti esclusi. Nelle more della sua infaticabile attività di studioso e docente, Contini ha conosciuto e frequentato una rara selezione di intellettuali europei, e in pagine di grandissima prosa si è segnalato come insostituibile testimone d¿epoca.

      Nel 1955 ha sposato una studentessa di Bochum, Margaret Piller; con lei ha avuto due figli: Riccardo e Roberto.

      Ludovica Ripa di Meana è nata a Roma nel 1933 fra i privilegi di un antico casato, squarta di sette fratelli. Dopo la guerra un improvviso collasso economico la costringe a interrompere il ginnasio-liceo e ad avventurarsi nella vita. Stenodattilografa a quindici anni, poi segretaria di un settimanale di cultura, redattrice editoriale della Feltrinelli e della Mondadori, e via via aiuto-regista di cinema, regista di inchieste televisive, giornalista dell¿¿Europeo¿, autrice di popolari trasmissioni tv.

      Una passione bruciante e disordinata per i libri, la disponibilità integrale alle storie e alle voci degli interlocutori, un¿aristocratica assenza di protagonismo le hanno consentito di conversare ¿alla pari¿ con personaggi grandi e bizzarri, facendo di lei uno dei più apprezzati intervistatori italiani, forse il più singolare ¿autobiografo¿ d¿altri. Fra gli innumerevoli, andrà ricordato almeno l¿emozionante ritratto televisivo di C.E. Gadda; per Adriano Celentano, mimandone l¿affabulazione stralunata, ha scritto Il paradiso è un cavallo bianco¿ Alla voce di Federico Zeri ha carpito il fortunatissimo Dietro l¿immagine, di cui ha elaborato la redazione scritta. Ha un figlio e una figlia, una nipote e un nipote, e vive a Roma.

      Nello spazio che intercorre fra due persone così remote per origine, indole e applicazione al mestiere di esistere circola questo libro singolarissimo.

      Appropriandosi delle minute curiosità e dei dubbi semplici e seri di Ludovica Ripa di Meana, ogni lettore potrà percorrere con confidenza e trepidazione (talora anche con ilarità) ricordi, umori, riflessioni d¿una vita dedicata con ¿diligenza¿ inesorabile alla ¿voluttà¿ dello studio; affacciarsi, senza sgomento di soggezione, in un interno borghese ai margini di 34 Accanto a essi, distinta solo per il mezzo a cui è destinata, la storica intervista televisiva a Carlo Emilio Gadda: Sulla scena della vita, realizzata con Gian Carlo Roscioni e trasmessa dalla Rai il 5 maggio 1972.5 Questi quattro lavori sono accomunati, a vario titolo, da quella sorta di casualità che governa il mestiere del giornalista culturale: incontri, anniversari, pubblicazioni, opportunità commerciali intorno a cui sorge un¿intervista che può far da scintilla allo sviluppo di un dialogo più ampio e articolato e dunque anche dar luogo a un progetto editoriale.

      Nell¿eterogeneità che segna i titoli raggruppati sotto l¿etichetta di «autobiografico altro», ai fini della ricerca sul tema dell¿alterità nell¿opera di Ludovica Ripa di Meana, appare Domodossola, dove vive fra i libri e le inquietudini uno dei più famosi e ardui intellettuali di questo secolo».

      5 Al ricordo degli ultimi incontri con Carlo Emilio Gadda è dedicata una delle sequenze più intense del testo rimasto inedito Asma: pagine di diario in data 5 febbraio 1973, 14 marzo 1973, 16 marzo 1973, 1° gennaio 1974 (Asma, inedito, pagine 58-68), a proposito delle quali si dirà nel capitolo seguente e più oltre. Una versione ridotta dell¿intervista è stata edita in videocassetta nel documentario Gadda racconta Gadda, a cura di Mauro Bersani e Maria Paola Orlandini, regia di Antonella Zecchini, Rai Educational, 2003 allegato al volume di Mauro Bersani, Gadda. La vita e le opere, Einaudi, Torino 2003.

      35 evidente che l¿analisi del libro intervista a Gianfranco Contini risulta quella più interessante e stimolante per varie ragioni.

      Innanzi tutto per l¿appartenenza al comune ambito letterario, che porta molte delle domande di Ludovica Ripa di Meana a concentrarsi intorno ai temi della lettura e della scrittura, della critica militante e dell¿erudizione e, nell¿insieme, dell¿universo letterario nei suoi molteplici aspetti.

      Poi c¿è il fatto che, a differenza dei precedenti, in quest¿ultimo testo non c¿è una mimesi della voce dell¿altro, ma la messa in scena del dialogo con l¿altro, che costringe l¿intervistatrice a farsi astante, attrice, a scoprirsi maggiormente.

      Ancora, seppur in apparenza motivo meno rilevante, la mia predilezione per l¿analisi di questo libro a discapito degli altri, oltre che per l¿ovvia affinità della materia trattata, è supportata dalla minor casualità nella scelta del ¿personaggio¿, e dalla maggior difficoltà dell¿operazione sia compositiva sia editoriale.

      Mentre il libro per Celentano o quello per Zeri erano fin dal principio destinati a un buon successo commerciale, mentre l¿intervista in limine mortis a Carlo Emilio Gadda conteneva già, per l¿eccezionalità della situazione, le caratteristiche dell¿evento storico, il libro intervista a Gianfranco Contini si configura fin 36 dal concepimento come scommessa, come sfida, come una vera e propria impresa autoriale.

      Se per gli altri tre lavori è facile ipotizzare un buon ritorno economico fin dall¿origine della scelta e del progetto, per quest¿ultimo è vero invece il contrario.

      Se per Federico Zeri e per Adriano Celentano si trattava di trasporre sulla pagina il fascino e il segreto della voce e della personalità dell¿estroso critico d¿arte o del più popolare cantautore italiano; se per intervistare Carlo Emilio Gadda si trattava di vincerne la proverbiale ritrosia, insinuandosi affettuosamente fra le sue nevrosi; il libro di Contini è invece tutto da inventare: il libro di Contini è tutto un¿invenzione.

      Prova ne sia che il risultato è un unicum nel panorama editoriale non solo italiano.6 La prima invenzione è proprio questo libro in sé, l¿idea che possa esserci il ritratto di uno dei massimi esponenti della filologia, di un mostro sacro dello studio e della critica che tutto 6 All¿interno di questo assai poco frequentato genere editoriale, va segnalato un altro libro di eccezionale valore: Camminare nel tempo di Ezio Raimondi (Aliberti, Reggio Emilia 2006), realizzato in dialogo con due allievi del grande italianista, Alberto Bertoni e Giorgio Zanetti. La natura degli interlocutori e la dimensione del dialogo fra gli allievi e il maestro danno luogo a un libro di tutt¿altra atmosfera, con una dimensione autoriale completamente differente.

      37 è stato fuorché un personaggio. La prima invenzione, che fa di questo un libro da accostare ai romanzi e alle tragedie di Ludovica Ripa di Meana, è il personaggio di Gianfranco Contini.

      Il secondo azzardo, non certo minore, è quello di aver definito questo libro «la prima autobiografia di un grande intellettuale italiano del Novecento», chiarendo che la matrice autoriale risiede all¿interno di una speciale e irripetibile dimensione dialogica paritaria, in cui l¿intervistatrice e l¿intervistato, le domande e le risposte concorrono nella medesima proporzione alla costruzione della voce narrante. Nel testo del risvolto (con amplissima probabilità dovuto, come d¿abitudine, alla mano del marito, Vittorio Sermonti) si legge che sono «la disponibilità integrale alle storie e alle voci degli interlocutori» e insieme «un¿aristocratica assenza di protagonismo» a consentire a Ludovica Ripa di Meana di «conversare alla pari» con persone così autorevoli nei rispettivi campi.

      Il concepimento e la nascita di questo libro si colloca infatti «nello spazio che intercorre fra due persone così remote per origine, indole e applicazione al mestiere di esistere». E in questo senso, la dimensione culturalmente «impregiudicata» di 38 Ludovica Ripa di Meana, armata solo di «una passione bruciante e disordinata per i libri», produce un dialogo sorprendente, coraggioso, improntato alla curiosità e alla libertà, un dialogo che si può arrivare a definire ¿romanzesco¿.

      Non solo nuovo, ma anche e soprattutto ¿altro¿.

      Il fatto che a intervistare l¿autorevolissimo filologo e l¿influente critico militante, l¿intellettuale che, esprimendosi ai massimi livelli in entrambe le discipline, ha rappresentato un modello ineguagliato,7 non sia uno dei suoi allievi bensì una giornalista, induce la conversazione a concentrarsi anche su aspetti personali, solo apparentemente minori, che giusto l¿irriverenza di un rapporto libero e paritario ha potuto far emergere.

      E non va nemmeno trascurato l¿apporto fondamentale dell¿elemento femminile alla costruzione di questa voce 7 Nella vastissima bibliografia continiana si possono eleggere a emblemi di questa duplice passione, da una parte il classico Un¿idea di Dante, Einaudi, Torino1970, la cura delle Rime, Einaudi, Torino 1939, Il Fiore e il Detto d¿amore attribuibili a Dante Alighieri nell¿edizione nazionale, Mondadori, Milano 1984 e l¿antologia Poeti del Duecento, Ricciardi, Napoli-Milano 1960; dall¿altra la serie Esercizî di lettura, Einaudi, Torino 1974, Ultimi esercizî ed elzeviri, Einaudi, Torino, 1987, Postremi esercizî ed elzeviri, Einaudi, Torino 1998 e i volumi Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Einaudi, Torino 1974 e Quarant'anni d'amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda, Einaudi, Torino 1989.

      39 autoriale, se è vero, come sostiene Mercedes Arriaga Flórez, che «il carattere detotalizzante dell¿autobiografico femminile è strettamente legato al rapporto che la scrittura instaura sia con la ¿materialità¿ della vita quotidiana, sia con la ¿materialità¿ del corpo».8 Basterebbe per la prima vedere con che immediatezza e spontaneità l¿intervistatrice riesce a domandare a uno dei massimi studiosi del suo tempo, noto per austerità e ritrosia, se sia goloso e se preferisca la polenta sciolta o quella granulosa, cosa significhi per lui darsi del lei oppure darsi del tu, se amasse i Beatles, se abbia paura dell¿aeroplano e altri simili dettagli che finiscono per restituire al lettore molte importanti informazioni capaci non solo di rivelare l¿uomo oltre la cortina di libri dei suoi studi, ma anche di proiettare su questi ultimi una luce inedita e rivelatrice.

      Per la seconda, invece, è sufficiente notare come ciascuna delle rievocazioni di amici o personaggi di rilievo del mondo culturale con cui Gianfranco Contini è entrato in contatto, contenga delle costanti e precise, a volte sintetiche e fulminanti, 8 Mercedes Arriaga Flórez, Mio amore, mio giudice. Alterità autobiografica femminile, Manni, Lecce 1997, pagina 9.

      40 notazioni sull¿aspetto fisico, sulla loro gestualità. Di Giorgio Morandi Contini dice: Lo conobbi subito dopo l¿ultima guerra, grazie al comune amico Giuseppe Raimondi (con cui poi, purtroppo, ruppe). Era un uomo fisicamente straordinario, che nella sua casa di via Fondazza, ammobiliata e arredata con solidità ottocentesca, allevava compendî di umili stoviglie in cui era metafisicamente concentrata la virtù antica, che veniva variando nei suoi «dipinti» all¿infinito. Altissimo, ossuto, con una frangetta canuta, sdentato, nuotante in abiti troppo larghi, era allora semplice, ascetico, ingenuo nel senso pristino della parola. Più tardi venne in lui insinuandosi la diffidenza, ma preferisco rammentarlo nella sua fase di eremita cordiale. Che sia il maggior pittore italiano di questo secolo, per me non fa dubbio.

      Di Filippo De Pisis, Contini dice: Sono stato amico di De Pisis, uomo finissimo e di grande bontà sotto la specie di un corpo triviale e vizioso. L¿ho frequentato molto a Parigi, e ho visto 41 man mano mutare la sua maniera di fa-presto in modi interessantissimi cui forse non è stata data la debita attenzione. Diceva di essere un discreto pittore ma soprattutto un poeta, e forse un poco ci credeva.

      E su Benedetto Croce: Ma com¿era Croce, personalmente? Era simpatico? Affascinante? era disponibile? umanamente avventuroso? Singolare sfilata di aggettivi, se permette, alieni in tutto da Croce. Simpatico, certo, era, verso gli amici almeno, ma dominato da quella che in buon italiano si chiamava «sprezzatura». Era ospitale senza ostentazione; e trasandato nel vestire, ma come un «galantuomo» delle sue parti. Il suo discorso era disseminato di epitafî culturali (per esempio: «la Germania, figlia primogenita dell¿Europa»), ma la trama generale era aneddotica. Amava fisicamente i libri. I suoi, tranne che in un¿aula centrale a due piani, erano tutti ad altezza d¿uomo, e di uomo non alto. [¿] Non ricordo di averlo mai visto ridere, né sorridere, nonostante i sali fescennini che seminava, rilevati dall¿accento fortemente vernacolare, che smottava spesso nel dialetto.

      42 Tutti questi elementi depongono a favore di una scrittura autobiografica che vuole essere vissuta non in antitesi alla scrittura romanzesca, bensì come figura, tropo che attraversa i generi letterari. E in questa direzione, ancor più suggestiva e prolifica si rivela l¿intuizione di Paul De Man,9 secondo cui l¿autobiografia più che un genere letterario vero e proprio è una figura di lettura, portando a compimento per certi versi e per tutt¿altre vie le riflessioni bachtiniane sulla vita storica dei generi letterari che si realizza e giunge a vera pienezza solo nella modulazione definita dalla partecipazione dei lettori.10 Una dimensione nuova dell¿autobiografico appartiene in generale a questa tipologia di scrittura, a prescindere dall¿originalità e dalla singolarità del caso in oggetto. Il contesto generale del secondo Novecento, infatti, segnato com¿è dalla 9 Paul De Man, ¿La autobiografía como desfiguración¿, in La autobiografía y sus problemas teóricos, Angel G. Louriero (a cura di), in «Suplementos Anthropos», n. 29, Anthropos, Barcelona 1991, pagine 113-117; e, soprattutto, il suo Allegorie della lettura, Einaudi, Torino 1997. Sul rilievo delle teorie di De Man sono fondamentali Jacques Derrida, Memorie per Paul de Man, Jaca Book, Milano 1995, Guido Guglielmi, Paul de Man e le aporie della lettura, in Id., La parola del testo. Letteratura come storia, il Mulino, Bologna 1993, pagine 121-151, Eduardo Saccone, Pratica e teoria della lettura (1997), introduzione a Paul de Man, Allegorie della lettura, cit., e Francesco Longo, Paul de Man. La lettura retorica, Aracne, Roma 2008.

      10 Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979.

      43 diffusione delle nuove tecniche di comunicazione, ha prodotto una sorta di espansione dell¿universo autobiografico e una nuova modulazione dei rapporti fra i generi letterari che lo attraversano, proprio a partire dai nuovi media (la radio, il cinema e la televisione) in cui può trovare espressione.11 Il segno della riuscita fusione delle due parti, quella interrogante e quella interrogata, in una voce narrante come unico protagonista della scena è qui ulteriore prova, sotto un aspetto in vero assai particolare più legato alla forma che non al contenuto, del paradosso tipico dell¿autobiografia, che la vuole finzione per chi la scrive e verità per chi la legge.12 E in questo caso, a maggior ragione, tornano precise e rivelatrici le analisi bachtiniane del rapporto tra autore e personaggio, che riproduce il rapporto tra parola letteraria e vita: L¿autore deve situarsi fuori di sé, vivere se stesso su un piano diverso da quello su cui noi effettivamente 11 Marziano Guglielminetti, ¿Biografia e autobiografia¿, in Letteratura italiana, V: Le Questioni, Einaudi, Torino 1986, pagine 829-886.

      12 Dario Villanueva, ¿Realidad y ficción: la paradoja de la autobiografía¿, in Escritura autobiográfica, José Romera Castillo e altri (a cura di), Actas del 44 viviamo la nostra vita; soltanto a questa condizione egli può integrare se stesso, fino a diventare una totalità [¿]; egli deve diventare un altro rispetto a se stesso, guardarsi con gli occhi di un altro.13 La dimensione romanzesca di questo libro, il suo carattere estetico, per restare all¿interno del binomio bachtiniano, sono sanciti dall¿invisibilità dell¿autore che «indossa la veste del tacere», si rende invisibile, non è più un io personale, soggettivo, bensì un io testuale, diviene principio e origine che dà coerenza e unità al testo secondo la celebre nozione foucaultiana.14 La voce narrante è una sola, frutto delle domande e delle risposte che si integrano in un dettato coerente, compatto, pur rimanendo sulla scena due astanti, due attori di cui si perde la distinzione di quale sia indispensabile all¿altro, un po¿ come in quelle coppie in cui non è possibile immaginare il comico senza la sua spalla o in cui addirittura si perde la distinzione tra l¿uno e l¿altro ruolo. seminario internacional del Instituto de Semiótica literaria y teatral, Madrid, UNED, 1-3 luglio 1992, Visor, Madrid 1992, pagine 15-33.

      13 Michail Bachtin, Estetica e romanzo, cit., pagina 15.

      14 Michel Foucault, L¿ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972.

      45 Al punto che, forse forzando un po¿ i termini del discorso, ma poi neanche tanto, a dire il vero, è possibile leggere in controluce di queste parole in cui Contini parla della moglie, alcuni tratti che caratterizzano il profilo culturale di Ludovica Ripa di Meana, soprattutto per quel che riguarda la definizione di «lettrice impregiudicata»: [Maragaret] è stata mia allieva, diciamo, tre settimane, e in un campo di vacanze in Austria, quindi il rapporto è stato, allora, veramente unilaterale. Però da quando ci siamo sposati, e anche da prima, ho imparato moltissimo da lei. Intanto perché è di un¿altra lingua, e poi perché maneggia quattro lingue, e perché è una lettrice assolutamente impregiudicata¿ mi ha insegnato moltissime cose.

      Qualcuna può averla imparata da me, ma sono certissimo che il bilancio è squilibrato: sono io che ho imparato molto di più da lei. E séguito. E mi piace discorrere con lei. Forse non di argomenti tecnici, ma di cose letterarie sì.

      Cosa vuol dire «è una lettrice impregiudicata?» Che non ha pregiudizi; che per giudicare se un libro è bello, non ha bisogno che glielo sia cantato da altri; e che se un libro è famoso, non per questo lo 46 giudicherà un capolavoro. No, è assolutamente libera da pregiudizi. E quindi ha una libertà di giudizio della quale ci si può fidare.» Il modo più semplice e immediato per dimostrare quanto questo libro-intervista, che si presenta come una serie di domande e risposte, senza alcuna didascalia o nota o preambolo, suddiviso in capitoli tematici, risulti nel suo insieme davvero romanzesco è forse quello di ripercorrerne i momenti più significativi.

      Si prenda l¿incipit con quel suo movimento circolare, tipico di molti testi di Ludovica Ripa di Meana, istintivamente votati a evitare una linearità semplificatrice, falsamente onesta, che illuda di una possibile chiarezza definitiva: Io vorrei dire che sto finendo dove incominciai, e il circolo si chiude¿ Per me è un vero onore ascoltare Gianfranco Contini, e anche un¿avventura. Spero di essere all¿altezza.

      Da dove cominciamo, professore? Mah¿ da dove lei vuole.

      Proviamo a cominciare da quando lei non c¿era? Mi racconta dei suoi genitori¿ 47 Senta: di un famoso professore si diceva che proclamasse di essere stato benedetto nei figli. Io sono stato benedetto nei genitori¿ O si prenda, un capitolo esemplare dell¿intero testo, per provare a delinearne alcune peculiarità: quello in cui Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini a proposito di un altro gigante della cultura italiana del Novecento, il critico d¿arte Roberto Longhi.

      In questo capitolo, intitolato Soprattutto un profilo, l¿autore conduce il lettore nella propria officina, per certi versi mostrando come armeggia con i ferri del mestiere di scrittore, in un gioco di rimandi in cui Ludovica Ripa di Meana ritrae Gianfranco Contini mentre ritrae Roberto Longhi: Un ritratto di Longhi non è facile da tracciare, ma l¿ingrediente importante è quello della sua semplicità.

      Questo uomo che pareva scostante, remoto e difficile, in sostanza era un uomo autentico, semplice e schietto.

      Lo accusavano di fare poche lezioni. Io ne seguii alcune, ma quelle che faceva, certo, erano incantevoli.

      Non erano lezioni impressionanti: erano di una schiettezza estrema, ma rivelatrici di fatti nuovi. Non 48 parlava mai di cose che non fossero o sicuramente collaudate o scoperte. Certo, è un grande scrittore, che passò attraverso molte fasi; e credo che abbia ragione Cecchi quando rileva che la sua ultima fase fu la fase classica, visto che da giovane era stato un settatore dei futuristi, poi venne evolvendo verso una sua «maniera», e poi la maniera evolse in qualcosa di estremamente puro, limpido. Insomma, direi che le sue ultime cose ¿ il Caravaggio, per esempio ¿ sono degli scritti di una limpidità sovrana.

      E poi, come rilevato anche in precedenza, la costante della materialità del corpo ritorna quale elemento imprescindibile nella costruzione della memoria dell¿amico, e del suo carattere: E come se lo ricorda, anche fisicamente¿ il primo ricordo, diciamo¿ Come le sembrò quel signore, quell¿uomo, quella persona seduta o in piedi? Mi parve soprattutto un profilo: un profilo imperioso e sdegnoso, che poi celava una grande bontà e disponibilità all¿amicizia nonostante le apparenze, le soprastrutture¿ Era un grande attore, voglio dire.

      Un grande attore? 49 Certo. Lui voleva veramente essere attore, avrebbe voluto fare l¿attore, e in realtà riuscì a realizzare questa sua vocazione di mimo. Era un mimo pungente. Non soltanto come imitatore, ma completamente, come rappresentante di un personaggio, ecco¿ gestiva il suo personaggio. Un personaggio che era qualche volta elegantissimo e qualche volta estremamente trascurato.

      Perché Longhi voleva mettere tra sé e gli altri il personaggio? Bisognerebbe essere attori per saperlo. Credo che ogni attore metta tra sé e gli altri un personaggio¿ Cosa che non gli impediva di essere lui, e di lasciarsi raggiungere. Ecco, la cosa rara per un personaggio che era attore, è che si lasciava raggiungere dagli amici. Ma quella chiavicina dell¿amicizia era molto difficile da ottenere. Del resto era molto ricco di umori e spesso non si poteva andar d¿accordo. Quando avvertivo che le sue opinioni divergevano dalle mie, e io non potevo tacerle, per qualche tempo, così, rallentavo la frequentazione, poi ritornavo¿ e quindi riuscii a salvare sempre la nostra amicizia.

      [¿] 50 Quel misto di spavento e di deferenza che Longhi incuteva a chi non aveva la ventura di essergli amico¿ Longhi lo faceva anche per ironia, di mettere un po¿ di distanza tra sé e gli altri? Ma l¿ironia era molto visibile, però non ritengo che fosse universale. Cioè, l¿ironia si mescolava ¿ e non tutti lo avevano capito ¿ a una certa ingenuità, a un certo candore. Era ironico e candido. E non so se sapesse di essere candido.

      Era questo il suo lato infantile? Certo, certo. Molto molto importante. Molto importante per spiegarlo.

      Per spiegare anche il suo talento? Certo.

      ¿ e la sua grandezza critica? Certo, certo.

      E la libertà con cui Ludovica Ripa di Meana provoca Gianfranco Contini a svestire i panni dell¿austero filologo per fargli raccontare una ¿barzelletta¿ su Longhi: Senta, e delle storie belle di Longhi? mitiche¿ o esilaranti¿ Oh, Dio. Non so. Ma non vorrei ridurre Longhi sul piano della barzelletta¿ perché, per la verità, lui 51 inclinava, inclinava con una certa enfasi alla barzelletta¿ Gliene do una: mia moglie è westfalica, no?, e lui diceva: «Gianfranco ha trovato moglie in West-phalia! L¿ha vista in West-phalia, e se n¿è innamorato!». È un tipico esempio delle sue facezie.

      E di nuovo la materialità, questa volta l¿attenzione cade sulla materialità dello sguardo, approssimandosi al segreto del magistero critico di Roberto Longhi: E quando lui guardava un quadro, magari un quadro che non aveva mai visto, succedeva qualcosa nella sua fisionomia? Socchiudeva gli occhi. Socchiudeva gli occhi e guardava un minimo particolare. Era dal particolare che risaliva all¿universale. Tanto è vero che agli studenti faceva fare dei quiz. Prendeva, mettiamo, un pezzettino di un quadro, non so, di Mantegna o di Caravaggio, e lo faceva riconoscere. Ricordo che fece questo esamino a mio figlio Roberto, quando era bambino, avrà avuto sette o otto anni, e Roberto lo passò¿ Passò l¿esame con Longhi! 52 Ma subito a questo si accosta il dettaglio quotidiano, minimo, che risponde a una curiosità piccola e sincera, che rivela al lettore il privato, l¿uomo, dietro l¿immagine pubblica del filologo: A proposito del guardare, professore, come mai lei non porta gli occhiali? Ogni tanto, in certe fasi della mia vita¿ portavo gli occhiali per guardare i quadri. Ci fu il grande periodo delle mostre, soprattutto dopo la guerra, specialmente in Svizzera. Ricordo di avere usato degli occhiali.

      Però è abbastanza eccezionale che alla sua età lei non usi gli occhiali facendo il lavoro che fa¿ Sì, ma vede, dall¿occhio sinistro sono miope, dall¿occhio destro sono ipermetrope, e i miei compagni di medicina, in collegio, mi profetavano che a ventotto anni (non so perché proprio a ventotto!) sarei diventato strabico. È passato un certo numero di anni, ma strabico non sono diventato. Io leggo col sinistro e vedo in lontananza col destro, e questa bigamia, vorrei dire, oculare, mi funziona perfettamente.

      Longhi, invece, li portava, gli occhiali? 53 Certo, certo¿ pince-nez portava: i quadri li guardava attraverso il pince-nez.

      E usava anche il binocolo? Sì, sì, e la lente. Ma ogni tanto, poi, si toglieva tutto, e aveva lo sguardo del miope, così dilatato, e un po¿ arrossato. E, allora, parlava con qualche enfasi¿ Con grande sapienza, il racconto passa dalla sfera professionale a quella personale, dal mestiere di critico d¿arte all¿intimità del rapporto con la morte: Può raccontarmi cosa vuol dire vedere una mostra con Roberto Longhi? In modo particolare una mostra di tesori tedeschi a Berna. E Longhi mi fece vedere come Giotto faceva le aureole. Una cosa assolutamente meravigliosa. Ma, quando lo si accompagnava, diceva ogni tanto qualche parola. Quando gli veniva l¿illuminazione, si fermava e allora parlava. Era veramente straordinario¿ ma straordinario per la semplicità con cui si metteva alla pari con l¿interlocutore. La verità non è su un piano irraggiungibile, la verità è raggiungibile, la verità è umana. Ecco, la sua verità era una verità assolutamente umana, non una verità remota. Forse è 54 anche per questo che la trascendenza gli era del tutto sconosciuta. Il pensiero della morte, credo che non l¿abbia mai sfiorato. È l¿unico essere umano, io credo, che abbia ignorato la morte.

      Non lo interessava? Non lo interessava, no. È una cosa che pochi sanno; e comunque non credo che abbia mai parlato di morte con qualcuno.

      Non la temeva? Non esisteva, per lui. Non è riuscito ad accanarla. Per me era un po¿ stupefacente, anche se me ne sono accorto un po¿ post factum, visto che io del pensiero della morte sono pieno direi dalla mia infanzia.

      Non vorrei, con lei, usare parole troppo improprie, ma quel che mi ha detto riguardava la laicità di Longhi? cioè, lui non aveva il senso¿ ¿ del sacro. Certamente, certamente: era assoluta-mente sprovvisto del senso del sacro.

      E questo dipendeva dalla sua educazione? Perché il lavoro che faceva, diciamo, in qualche modo riguarda il sacro¿ o no? Ma, forse, per evitare queste superfetazioni di falso sacro, lui se lo inibiva completamente. Però, a me sembrava che non fosse una misura igienica¿ ah, 55 certo, il misticismo percorre la storia dell¿arte, il misticismo da lui odiato e, soprattutto, deriso. Mah¿ in sostanza, ci si sentiva in pace con Longhi. No, Longhi non è che si celasse la morte per una sorta di igiene: era una cosa profondamente spontanea. In qualche modo, se vuole, una cosa aberrante. Che un uomo non pensi alla morte può darsi che sia mostruoso¿ forse faceva parte del mirabile monstrum che lui era.

      E la sua scienza, la sua arte di scrittore e di persona che intuiva e conosceva l¿arte degli altri, tutto questo come si mescolava con questa assenza del sacro? Era un uomo coi piedi sulla terra, e aveva un senso vivace della realtà. Difatti, in sostanza, le sue grandi scoperte sono scoperte di pittori della realtà.

      Caravaggio è «pittore della realtà», come dice il titolo della sua famosa mostra.

      Infine, a complemento del profilo dell¿amico, Gianfranco Contini consegna al lettore un ricordo della moglie di lui, la scrittrice Anna Banti, ancora una volta instradato dalla propria interlocutrice a riscaldare l¿immagine pubblica di questi giganti della cultura italiana, con la descrizione degli elementi della 56 loro vita privata, facendone dei ¿personaggi¿ a tutto tondo all¿interno della narrazione: E Anna Banti che persona era? Anna Banti era una persona, a prima vista, scostante; aveva, invece, una nascosta bontà che procurava di tacitare, di non mostrare¿ e che io ho certamente raggiunto. Ma non voleva assolutamente, diciamo, passare per una donna fornita di bontà. Era una donna austera, severa, amara, che custodiva la tranquillità del marito, che si trovava anche in conflitti asperrimi con Roberto, ma che, verso la fine della sua vita, si era adagiata con lui in una amicizia fraterna, in un compagnonnage veramente mirabile. Direi che Longhi aveva riconosciuto le qualità della scrittrice, e le lasciava questa parte. Tanto più, quando lei si occupava di pittori, o di pittrici, com¿è il caso, per esempio, dell¿Artemisia, o di Lotto. Quando era ancora Lucia Lopresti, fu, oltre il resto, una archivista eccellente, e fece alcune scoperte fondamentali sulla cronologia di Caravaggio.

      Questo prima di essere la moglie di Longhi? Prima di essere la moglie, ma essendone l¿amica ammirata. È stata sua allieva¿ e quel corso che ha pubblicato ¿ quel corso che faceva non so se al 57 liceo Ennio Quirino Visconti ¿ quello lo sentì, lei, e si innamorò di quest¿uomo, e volle che fosse suo marito.

      Ci furono delle difficoltà, ma lei riuscì a salvare queste nozze.

      Longhi era restìo?...

      Sì, sì. Era restìo non a lei ma alle nozze in genere, e gli era molto difficile convivere. Difatti convivevano in luoghi separati.

      Ah, non vivevano insieme? Non vivevano proprio insieme. Le due camere erano ben distinte e, almeno negli ultimi tempi della loro vita, era una simbiosi molto rispettosa dei diritti dell¿altro.

      Era una donna bella, Anna Banti? Era stata molto bella e aveva mantenuto un portamento regale. Aveva avuto dei capelli rossi di un¿attrazione, penso, straordinaria¿ E perché aveva fama di essere una donna terribile? Probabilmente perché era molto timida e aveva bisogno di rafforzarsi, di rivaleggiare. Del resto, era una lavoratrice prodigiosa; la sua giornata era diligentemente piena, e Roberto diceva: «Se io avessi la possibilità di scrivere e la tenacia di Lucia, certamente avrei scritto un¿opera immensa». Ma mi pare che fosse già sufficiente¿ 58 CAPITOLO TERZO Autobiografico privato: Asma A seguito di una gravissima crisi asmatica, avvenuta nell¿estate del 1988, il marito suggerì a Ludovica Ripa di Meana di provare a raccontare per iscritto la vicenda traumatica appena vissuta, per superare l¿impasse psicologica in cui era rimasta bloccata.

      Leggendo le prime pagine di questa storia, Vittorio Sermonti incoraggiò la moglie a continuare, a scrivere ancora. Tempo di una vacanza e, alla fine dell¿estate, quel racconto aveva assunto le dimensioni di un testo di novantanove cartelle dattiloscritte, Asma, tuttora inedito.

      Un amico che lavorava in una casa editrice, leggendo quelle pagine e apprezzandole, fece notare all¿autrice che la sua scrittura non possedeva la cadenza e il passo della prosa, bensì quelli della poesia, e che lei avrebbe dovuto continuare ad assecondare deliberatamente quell¿istinto, scrivendo in versi.

      60 Non è il caso di attribuire un particolare valore al fatto che il testo non sia stato accolto da quell¿editore, che non ne abbia trovato un altro o che l¿autrice abbia infine deciso di mantenerlo inedito.

      Ogni considerazione in merito alle caratteristiche che ne determinarono la mancata pubblicazione, in quella circostanza e forse anche in altre, di cui non ho notizia, non aggiunge molto, anzi direi quasi nulla, al discorso critico su Asma.

      È invece un dato significativo il fatto che Ludovica Ripa di Meana abbia messo questo testo nel cassetto definitivamente; sia perché non lo ha più ripreso per correggerlo o modificarlo, sia perché nessuna di quelle pagine e nessuna di quelle storie è stata riutilizzata nei testi scritti successivamente.

      Agli occhi dei pochi lettori che lo hanno conosciuto Asma si presenta dunque sotto l¿insegna della «privatezza» (Vittorio Sermonti), in termini decisamente radicali.1 È l¿unico testo autobiografico scritto da Ludovica Ripa di Meana, se si esclude la prima parte del romanzo d¿esordio, La sorella dell¿Ave,2 in cui 1 Ludovica Ripa di Meana me ne ha fornito copia, così come degli altri testi inediti (la commedia Andiamo, la tragedia in farsa Black in e le poesie scritte dal 1979 a oggi, riunite con il titolo indicativo Rime), in funzione di questa ricerca.

      2 Ludovica Ripa di Meana, La sorella dell¿Ave, Camunia, Milano 1992.

      61 l¿autrice racconta vicende ed episodi che ricalcano quelli della propria infanzia.

      Un discorso a parte meritano le poesie, che hanno di fatto quasi tutte un carattere fortemente autobiografico, sia quelle legate a elementi della quotidianità, sia quelle legate alla dimensione religiosa, al dialogo con Dio. Questo corpus poetico, ordinato cronologicamente, fino a oggi non è mai stato in alcun modo predisposto e riorganizzato in vista di un¿eventuale pubblicazione e, come Asma, è stato relegato a una dimensione privata.3 3 Vittorio Sermonti ha scritto una nota di accompagnamento, a mo¿ di presentazione di queste inedite Rime, che illustra perfettamente la situazione delle poesie e, per estensione, sotto certi aspetti, anche di Asma: «Se aspettavamo lei¿ Come abbastanza noto, seppure in ambito abbastanza angusto, Ludovica ed io viviamo nella stessa casa da un bel pezzo, anche legittimamente coniugati. Che a ciò si debba la mia conoscenza meticolosa di quel che lei scrive ed ha scritto, non lo considero un pettegolezzo. Non mi travesto da talent scout nel ricordare per sommi capi a chi non lo ricordi ¿ cioè, alle moltitudini dei lettori e alla generalità degli addetti ¿ che la sua bibliografia tardiva include tre romanzi in versi, due tragedie e quattro monologhi (sempre in versi), oltre a un libroconversazione con Gianfranco Contini, ed altre scritture extra-vaganti; alcuni riscontri, spodarici ma piuttosto trionfali (messinscena della tragedia Kouros, e di almeno un monologo; premio Viareggio per la poesia 2003¿) non sono bastati ad arruolarla nella ¿sacra corporazione¿ dei letterati: leggevo poco fa su un quotidiano famoso un catalogo degli italiani che hanno scritto teatro in versi negli ultimi tempi, e lei non c¿era.

      62 Dunque, mai come in questo caso risultano appropriate le ammonizioni a considerare l¿autobiografia come un racconto a sé più che un racconto di sé, a partire dal celebre proposito di Friedrich Nietzsche in Ecce homo: «Mi racconterò la mia vita».4 L¿affermazione di Jacques Derrida per cui un testo è autobiografico non «perché il firmatario racconta la sua vita [¿] ma perché questa vita egli se la racconta, perché egli è il primo, se non il solo, destinatario della narrazione»5, in questo caso è doppiamente confermata, sia sul piano concettuale e teorico, sia sul piano concreto e reale. Asma è un testo nato con un intento terapeutico: liberare la propria autrice dall¿angoscia e dall¿incubo di un nuovo attacco come quello di cui racconta.

      Questo intento si tramuta quasi subito in pretesto; e al superamento della crisi respiratoria si sovrappone la Insomma, ridottosi l¿esercizio della critica militante (salvo rare e benedette eccezioni) alla anamnesi sociologica del successo, è giusto, è bene che Ludovica sia tagliata fuori. Da qualche anno l¿eco della sua poesia si è raccolta dentro le mura della sua casa. E scrive versi di una sconsolata, altera privatezza. D¿altra parte, come tutti i poeti poeti non è contemporanea della bellezza che canta, e che lei stessa frequenta sotto altra specie».

      4 Friedrich Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Adelphi, Milano 1986, pagina 270.

      5 Jacques Derrida, Otobiographies. L¿insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio, «Il Poligrafo», Padova 1993, pagine 52-53.

      63 liberazione della voce dell¿autrice: all¿interno del testo la ripresa del respiro coincide metaforicamente con la nascita della scrittura.

      Asma è un testo difficilmente ascrivibile a un genere letterario, a meno di non volerlo arruolare alla fin troppo folta schiera del romanzo che assorbe tutti i generi, categoria talmente ampia da richiedere poi ulteriori specificazioni per poter essere individuata e utilizzata in termini significativi.

      Appare invece utile all¿intelligenza del testo consegnarlo all¿ambito della scrittura autobiografica, che spesso ¿ specie quella femminile ¿ proprio per la sua natura attraversa i generi e non si pone limiti, ascrivendo come proprio destinatario il proprio autore ¿ un raccontare a sé, come si diceva sopra ¿ e, sarebbe meglio specificare, la propria autrice, appartenendo questi testi, autobiografici e privati, a una tradizione prevalentemente femminile. È questa una scrittura marginale, quando non addirittura emarginata; appartiene a una genealogia dispersa, clandestina, misconosciuta, fitta di testi inediti o scarsamente tradotti: è una parte consistente della 64 scrittura delle donne, quella che ancora, nel suo insieme, stenta ad acquisire un¿istituzionalizzazione vera e propria.6 Forse allora la vera natura di questo testo è quella del cartone preparatorio e, a uno sguardo critico, Asma appare come un incunabolo della vocazione alla scrittura autoriale di Ludovica Ripa di Meana. A questo si può soprattutto attribuire la variazione dei registri linguistici e dei timbri narrativi che caratterizzano le varie storie che si avvicendano nel testo.

      Nelle pagine che raccontano la crisi respiratoria, la narrazione è in prima persona; a prevalere è l¿aspetto visionario e allucinato delle descrizioni delle sensazioni e dei pensieri della protagonista. Frasi nominali, ridotte spesso a pochissime, minime parole, tese a segnare il ritmo sincopato del respiro che non c¿è e viene invocato con inutili tentativi, si alternano a veri e propri versi, di varia misura, con l¿uso in certi casi addirittura della rima, che, innestati nella prosa, conferiscono alla narrazione una dimensione poetica e una musicalità potenti, come ad esempio in questa clausola di sequenza: 6 Un panorama sia storiografico sia teorico della tradizione della scrittura autobiografica, e nello specifico della scrittura autobio-grafica femminile, è 65 ¿ lo sperma della notte l¿ha spalmata: è viscida, sfuggevole, gelata.

      Asma merita dunque una particolare attenzione che prescinde dall¿idea di un suo possibile recupero editoriale o di un suo mancato inserimento accanto a quelli pubblicati: la sua natura eminentemente autobiografica e privata finisce per essere l¿ambito all¿interno del quale Ludovica Ripa di Meana si racconta a sé stessa più di quanto non abbia fatto in alcuno degli altri suoi testi.

      Che si tratti di un testo rivelatore, di un testo che sancisce la nascita di una scrittrice vera, con una voce personale e con istanze narrative autentiche è provato da diversi elementi che lo caratterizzano.

      Forse contiene una parte di verità quella provocazione per cui i narratori scrivono sempre solo un libro e tutto il loro mondo, il cuore, è già contenuto nel primo romanzo. Il critico Massimo Onofri, in una recensione, arrivò addirittura a suggerire l¿ipotesi di una storia della letteratura attraverso i romanzi d¿esordio, sostenendo che tutto quello che si può dire offerto nella prima parte del libro di Mercedes Arriaga Flórez, Mio amore, mio giudice. Alterità autobiografica femmi-nile, Manni, Lecce 1997.

      66 di uno scrittore, nella maggior parte dei casi, è già ricavabile, in nuce, dall¿analisi della sua opera prima.

      In questo caso, questo gioco provocatorio divertente non meno che acuto, andrebbe ancora una volta applicato a metà, essendo Asma il primo testo di Ludovica Ripa di Meana, ma non rappresentando di fatto il suo esordio nel mondo delle lettere. Ciò non di meno contiene una serie di elementi di sicuro interesse, sia per analizzare la nascita di una voce autoriale che ¿ non va dimenticato ¿ avviene in età matura, quando Ludovica Ripa di Meana ha sessantacinque anni; sia perché la destinazione privata sotto la cui luce è stato composto questo testo pone all¿evidenza del lettore temi e questioni che nei testi successivi di questa scrittrice appariranno invece dissimulati e assai meno riconoscibili.

      Considerando che il lettore di queste pagine non ha la possibilità di accedere al testo di cui sto parlando, mi sono risolto ad analizzarlo, seguendone lo svolgimento e avvalendomi di ampi prelievi.

      Cominciamo dunque dal principio: Giovedì, 11 agosto, sono andata a Meana per la prima volta in vita mia. E sabato 13 agosto 1988, dopo 13 67 anni e 13 giorni da quando avevo cominciato, alle 3 del mattino, ho smesso di fumare. Per 40 minuti circa, i bronchi, i polmoni, si sono sclerotizzati, asciugati, induriti, fossilizzati, come quei rami di corallo non molato dimenticati nelle vetrine a soffitto alto (l¿insegna è sempre nera e oro) di qualche gioielleria d¿antan, nel nastro tra Napoli e Salerno.

      Così, e da un istante all¿altro, mentre stavo dormendo un sonno leggero e appetitoso, sgombro, raro sia per l¿età che per il mio scassato indotto bronco-polmonare, più irresponsabile di uno scaldabagno a gas. Di colpo mi sono seduta sul letto, come se un rumore mi avesse svegliato. Il petto era di marmo ma credevo di respirare.7 La notazione iniziale del viaggio a Meana di Susa, il paese da cui trae origine il nome della famiglia dell¿autrice, a pochi chilometri dal confine piemontese con la Francia, si mostra a tutta prima isolata. Apparentemente, un dato consegnato al lettore quasi solo per fornire una contestualizzazione geografica, se si trascura il fatto che l¿autrice sta per raccontare della propria minaccia di morte. Al contrario, questo è il primo elemento che ci parla della nascita di una scrittrice e del 68 riconoscimento della propria voce, se seguiamo Roland Barthes quando riconosce nella matrice di ogni racconto il mito di Edipo: Raccontare non è sempre cercare la propria origine, dire i propri fastidi con la legge, entrare nella dialettica dell¿intenerimento e dell¿odio?»8 La domanda di Edipo, «Perché dunque non dovrei indagare la mia origine?»,9 rimanda, infatti, la definizione della identità personale all¿individuazione delle proprie origini.

      Adriana Cavarero, in un saggio tra quelli che meglio hanno analizzato dal punto di vista filosofico la natura della narrazione femminile,10 invita a rivolgersi a Freud piuttosto che a Sofocle, ritenendo che ascrivere il racconto al piacere edipico è 7 Ludovica Ripa di Meana, Asma, inedito [1989], pagina 1.

      8 Roland Barthes, Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1975, pagina 46.

      9 Sofocle, Edipo re, vv. 1082-1085 in Id., Antigone; Edipo re; Edipo a Colono, a cura di Franco Ferrari, Rizzoli, Milano 1987, pagina XX. Ma anche Edipo: il teatro greco e la cultura europea. Atti del Convegno Internazionale (Urbino 15-19 novembre 1982), a cura di Bruno Gentili e Roberto Pretagostini, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1986.

      10 Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 2001.

      69 un processo che appartiene alla logica fallologocentrica: le storie di vita, invece, ci rivelano in quanto nati da madre.

      Del mito edipico, invece, vale conservare l¿ammonimento all¿impossibilità di conoscere la propria storia e alla necessità di sentirla raccontata da altri: la categoria dell¿identità personale implica rigorosamente la presenza dell¿altro, rimandando all¿originaria ¿ materna ¿ dimensione visiva per cui l¿identità corrisponde all¿esposizione di sé.

      In una concezione relazionale del mondo per cui, come ha scritto María Zambrano, «tutto è correlato nella vita: il vedere è il correlato dell¿esser visto, il parlare dell¿ascoltare, il chiedere del dare»11, Adriana Cavarero richiama le riflessioni di Hannah Arendt sulla coincidenza ontologica, e non solo fenomenologica, di essere e apparire: Il ¿chi¿, che appare in modo così chiaro e inconfondibile agli occhi degli altri, rimane nascosto alla persona stessa, come il daimon della religione greca che accompagna ogni uomo per tutta la sua vita, 11 María Zambrano, I beati, Feltrinelli, Milano 1992, pagina 116.

      70 sempre presente dietro le sue spalle e quindi solo visibile a quelli con cui egli ha dei rapporti.12 Le storie di vita appaiono dunque prive di autore, persino quando si presentano come autobiografiche, in quanto derivano da un¿esistenza che si connota per la sua «forma relazionale e contestuale dell¿esporsi agli altri».13 Nell¿analisi e nella definizione dell¿identità e della soggettività, Adriana Cavarero offre un¿immagine del sé relazionale impossibilitato a vedersi e dunque obbligato a esistere nello sguardo altrui, in antitesi al mito di Naciso e al soggetto cartesiano. L¿identità del sé, individuale e per questo unica, non deriva da un effetto di discorso, come per gli strutturalisti e i decostruzionisti; è piuttosto un¿identità incompleta in sé e dunque proiettata verso l¿esterno, tutta volta ad affidare il riconoscimento del proprio senso allo sguardo, ai gesti e alle parole dell¿altro. È in questa dimensione che essa si configura come soggetto e oggetto di narrazione.

      La filosofia della narrazione di Adriana Cavarero si adatta con proficui risultati all¿analisi di alcuni nuclei fondanti 12 Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1989, pagina 131. Ma si veda anche su questo tema Id., La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987.

      71 dell¿opera di Ludovica Ripa di Meana, soprattutto per questo testo iniziale, fondativo e rivelatore, che è intitolato alla morte e ruota interamente intorno alla madre.

      Il pretesto da cui trae origine la narrazione di Asma è, come rivela il titolo, la minaccia di morte, ovvero il rischio di fronte al quale l¿esigenza di definire la propria identità acquisisce una dimensione tangibile e concreta, poiché liminare.

      Proprio per questo a essere centrale nel testo è il tema della madre, declinato qui in una molteplicità di forme che si ritroveranno parcellizzare e disseminate nelle successive opere narrative e drammaturgiche di Ludovica Ripa di Meana.

      A riprova di quanto questo tema costituisca un nucleo fondamentale e generativo dell¿universo di questa scrittrice, basta osservare come proprio il rapporto con la madre sia l¿unico elemento autobiografico presente nella suaopera, e solo e soltanto nella prima parte del primo romanzo.

      In principio era la madre.

      E che si ritorni al principio quando ci s¿avvicina alla fine, o per lo meno nel punto di estrema disperazione in cui si intravede la possibilità di essa, è un gesto circolare che appartiene non solo a quell¿incunabolo della scrittura di 13 Cavarero, cit., pagina 52.

      72 Ludovica Ripa di Meana che è Asma, ma anche a molti altri suoi testi, come si verrà dimostrando più avanti nel capitolo decimo, intitolato «Soggetto».

      Asma risulta, dunque, essere un testo composto di più testi, nel racconto in prima persona della crisi respiratoria s¿inseriscono, alternativamente: il monologo rivolto alla madre; la storia in terza persona della «bambina» che è stata l¿autrice; pagine di diario datate all¿altezza dell¿anno 1962, in cui si narra di una madre (ancora una volta vi si intravede l¿autrice) e dei suoi due figli; la Storia di En, altra narrazione in terza persona che recupera episodi mutuati dalla giovinezza dell¿autrice; pagine di diario datate all¿altezza del 1973, in cui si narra degli ultimi incontri dell¿autrice con lo scrittore Carlo Emilio Gadda; un brevissimo atto unico intitolato Lui la mamma e l¿altro.

      Così elencate, per eterogeneità dei generi e degli stili, queste sequenze di cui si compone il testo sembrano offrirne un¿immagine frammentata, fatta per giustapposizioni, quasi si trattasse di un assemblaggio di materiali preesistenti. Non è così, poiché si possono rintracciare molti richiami tra una sezione e l¿altra, scorgere tramature e sviluppi di temi o anche solo di singoli dettagli, che danno compattezza a questo libro sotteso tra i due poli della morte e della madre.

      73 Questi due elementi ¿ la morte e la madre ¿ richiamano alla mente l¿archetipo della Grande Madre, cui si dedicò principalmente uno degli allievi di Jung, Erich Neumann,14 appartenente al circolo degli amici di Hannah Arendt a Heidelberg, prima di lasciare la Germania per la Svizzera e approdare infine in Palestina.

      Già Jung aveva mostrato come il concetto di Grande Madre, proveniente dalla storia delle religioni, abbraccia distinte configurazioni del tipo della dea madre: questo simbolo essendo un evidente derivato dell¿archetipo più ampio della madre.15 Nella sua teoria evolutiva della coscienza, per certi versi accostabile all¿epistemologia genetica di Jean Piaget, Neumann associa le tappe dello sviluppo individuale a quelle della storia 14 Sul tema della Grande Madre sono fondamentali gli studi di Erich Neumann, La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell¿inconscio, Astrolabio, Roma 1981; La psicologia del femminile, Astrolabio, Roma 1975 e Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1978; ma anche quelli di Robert Graves, La Dea Bianca, Adelphi, Milano 1992 e I miti greci, Longanesi, Milano 1955; e quelli più recenti di Marja Alseikaité Gimbutas, Il linguaggio della dea. Mito e culto della dea madre nell¿Europa neolitica, Longanesi, Milano 1990 e Le dee viventi, Medusa, Milano 2005; infine il saggio di Roberto La Paglia, La Grande Madre. I culti femminili e la magia lunare, Edizioni Akroamatikos, San Giorgio Jonico 2008.

      74 della coscienza del genere umano. L¿archetipo della Grande Madre, conservativo e antitetico a ogni forma di differenziazione, risulta all¿interno di questo processo l¿ostacolo maggiore al raggiungimento del pieno sviluppo dell¿individuo che, per conquistare la propria parte femminile, deve sviluppare le proprie capacità di separazione e di autoaffermazione.

      L¿archetipo della Grande Madre è connesso ai culti legati al ciclo di morte e di rinascita delle sementi e alla ciclicità della luna, tipici della civiltà contadina e, ancora più a ritroso, tipici della natura. Non a caso la Grande Madre è simboleggiata, tra gli altri, sia dal serpente, il cui corpo aderisce alla terra completamente, sia dalle forme circolari, che richiamano questa concezione naturale del tempo.

      Come osserva Neumann: La Grande Madre è la Signora del tempo in quanto signora della crescita. La Grande Dea quindi è anche una dea lunare, poiché la luna e il cielo notturno sono le manifestazione evidenti e visibili della temporalità del cosmo, ed è la luna, non il sole, l¿autentico 15 Carl Gustav Jung, L¿archetipo della madre. 1939-1954, Bollati Boringhieri, 75 cronometro dell¿era primordiale. La qualità temporale, così come l¿elemento acqua, vanno ascritti al Femminile, la cui natura fluente diviene evidente nel simbolo del flusso del tempo. A partire dalle mestruazioni, sino a giungere alla gravidanza, il Femminile è ascritto al tempo ed è dipendente e determinato da esso più di quanto lo sia il maschile, che tende al superamento del tempo, all¿esenzione dal tempo e all¿eternità.16 Anche Julia Kristeva, da tutt¿alto punto di vista, quello semiotico, parla di «un tempo delle donne», ciclico e monumentale, derivato dalla sintesi del tempo della fase patriarcale, storica e cronologica, d¿impronta occidentale, giudeo-cristiana e di quello della fase matriarcale, astorica, ciclica e mitica, d¿impronta orientale, indù buddista.17 Dal punto di vista della critica letteraria, Béatrice Didier nella sua analisi del journal intime come genere letterario18 Torino 1981.

      16 Erich Neumann, La Grande Madre, cit., pagina 227.

      17 Julia Kristeva, ¿Le temps des femmes¿, in «Cahiers de recherche des sciences des textes et documents», n. 5, 1979, pagine 5-19.

      18 Béatrice Didier, Le journal intime, Presses Universitaires de France, Paris 1976; ma si veda anche il più recente L¿écriture femme, Presses Universitaires de France, Paris 1991.

      76 riscontra che l¿autobiografia femminile presenta un tempo ciclico, in cui il racconto del sé è il risultato di una composizione corale, quasi di una disposizione circolare delle persone e della materia intorno alla protagonista, la cui identità è data dalla relazione che intercorre con l¿altro da sé: è ancora una volta un¿identità relazionale.

      Asma è un testo che condensa questi elementi tipici della narrazione autobiografica femminile: vi si riscontrano gli elementi caratteristici dell¿archetipo della Grande Madre elaborato da Erich Neumann, quelli del «tempo delle donne» di Julia Kristeva, quelli della circolarità del journal intime di Béatrice Didier.

      Ludovica Ripa di Meana di fronte alla necessità di raccontare il rischio della propria morte, per vincere l¿angoscia del timore di un nuovo attacco d¿asma, crea una serie di disposizioni concentriche, attraverso le quali passa dalla propria morte in atto ¿ la struttura principale del racconto è, infatti, quella del momento in cui la narratrice è vittima della crisi respiratoria ¿ al ricordo della morte della madre; passa da una storia di sé come madre sola con i propri «abbandonati» figli ai ricordi di sé come bambina che ama disperatamente e 77 accudisce con amore tutto materno la bambola della miglior amica; poi, le pagine di diario degli ultimi incontri con Carlo Emilio Gadda e della sua morte, che a prima vista potrebbero apparire quasi una monade interna al testo, giacché non si fa quasi mai menzione del suo dissidio con l¿autorità materna: solo alla fine, scolpito, con la definizione potente, con cui l¿autrice si congeda dalla sua salma: «il nonamato».

      Ma di queste pagine dedicate a Carlo Emilio Gadda parlerò diffusamente nel capitolo seguente, «Il nodo alla cravatta», ravvisandovi il segno forte della ricerca della matrice della propria scrittura, della propria voce.

      Se un filo c¿è, più importante di altri, a cucire tutte queste storie, forse, è quello animato da un discorso matrilineare che, cambiato ciò che va cambiato, ricorda certi pensieri di Virginia Woolf quando invitava le donne, in quanto tali, a pensare attraverso le proprie madri19; e quando, mirando alla pace, e invocandola, auspicava «l¿arte dei rapporti umani, l¿arte di comprendere la vita e la mente degli altri»,20 ritenendo 19 Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé in Romanzi e altro, Mondadori, Milano 1978, pagina 792.

      20 Virginia Woolf, Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano 1980, pagina 58.

      78 necessario «trovare nuove parole, inventare nuovi metodi»21 per la pace, cioè per la vita. Ciascuna, individualmente, insieme alle altre.

      Asma è, dunque, un prendere la parola, un tentativo di modulare la propria voce, d¿individuare il proprio timbro: è un testo per diventare e dirsi scrittrice.

      E per raggiungere questo obiettivo, Ludovica Ripa di Meana sembra sentire l¿esigenza di una specie di regolamento di conti con l¿«ordine semiotico della madre» (Julia Kristeva), prima di entrare in un mondo, quello letterario, profondamente segnato dall¿«ordine simbolico del padre» (Jacques Lacan).

      Asma presenta infatti una ricca e articolata trama di quel linguaggio fatto di segni, carezze, cura affettuosa, legame immediato, che Kristeva ha assegnato all¿«ordine semiotico della madre» e Luisa Muraro all¿«ordine simbolico della madre».

      Questi testi non solo presentano un¿accentuazione del rapporto madre-figlia, in cui la protagonista ricopre entrambi i ruoli, prima rivolgendosi alla memoria della madre, poi vedendosi come madre dei propri figli; ma mette in scena anche 21 Ibidem, pagina 188.

      79 la complessa affettività delle amicizie, declinata nelle varie età della vita.

      Anche la dinamica tra interiorità ed esteriorità, tra sé e altro, è segnata da una marca eminentemente femminile all¿interno della quale il parallelismo tra respiro e scrittura giunge, alla fine, a prendere la forma, in sogno, di un parto immaginario.

      Georges Didi-Huberman condensando i propri studi sulla filosofia di Pierre Fédida,22 in un libro breve quanto intenso, parla dell¿aria come veicolo della parola, ma anche quasi come materia organica attraverso cui si articola, si accentua, si respira e si modula il fraseggio della nostra parola.

      Il dire diviene luogo materiale d¿incontro tra soggetto e oggetto, tra significante e significato, e suggerisce una «respiration s¿ouvrant à l¿autre et signifiant à autrui sa signifiance même».23 Il dire dunque come «témoinage», «pur vocatif», «sincerité », «proximité» all¿altro: 22 Geroges Didi-Huberman, Gestes d¿air et de pierre: corps, parole, souffle, image, Les Éditions de Minuit, Paris 2005.

      80 «Dire ainsi, [¿] c¿est s¿épuiser à s¿exposer, c¿est faire signe en se faisant signe sans se reposer dans sa figure même de signe».24 Nel suo solito stile affascinante e ricco d¿immagini potenti, Georges Didi-Huberman spiega come quest¿operazione di conferire aria e gesto al dire di attui in una dinamica di mutuo potenziamento tra parola e silenzio, scambievolmente interni ed esterni: La plus juste parole n¿est sourtout pas celle qui prétend ¿dire toujours la vérité¿. Il ne s¿agit même pas de la ¿mi-dire¿, cette vérité, en se réglant théoriquement sur le manque structurel dont les mots, par la force de choses, sont marqués. Il s¿agit de l¿accentuer. De l¿éclairer ¿ fugitivement, lacunairement ¿ par istants de risque, décisions sur fond d¿indécisions. De lui donner de l¿air et du geste. Puis, de laisser sa place nécessaire à l¿ombre qui se referme, au fond qui se retourne, à l¿indécision qui est encore un décision de l¿air. C¿est donc une question, une 23 Pierre Fédida, «Le souffle indistinct de l¿image», in La Part de l¿oeil, n. 9, «Arts plastiques et psychanalyse II», 1993, pagina 220.

      24 Ibidem, pagina 223.

      81 pratique de rythme: souffle, geste, musicalité. C¿est donc une respiration. Accentuer les mots pour faire danser les manques et leur donner puissance, consistence de milieu en mouvement. Accentuer les manques pour faire danser les mots et leur donner puissance, consistence de corps en mouvement.25 In Asma appunto l¿assenza d¿aria, di respiro si fa assenza di parola, momento decisivo, sia concretamente perché liminare, sia perché simbolicamente rivelatore: Se il respiro è luce, io sono il buio. Se il respiro è un pieno, io sono il vuoto. Se il respiro è vita, io sono morte. Un buio, vuoto, morto, non ancora morto. ¿Se il respiro è voce, io¿¿. Silenzio che si smiagola, emanandosi, nella perfetta cilindricità del laser: è lo sforzo dei visceri, delle natiche, dei polpacci, delle narici; il ronzìo tellurico delle orecchie; la cadenza da reclusorio di unghie, capelli, denti. Ossa. Condannati a esserci. Buio, vuoto, morto, muto. Non ancora.26 25 Georges Didi-Huberman, cit., pagina 9.

      26 Ludovica Ripa di Meana, Asma, cit., pagina 2.

      82 In questo richiamando alla mente anche il celebre passo del saggio sull¿umorismo di Pirandelliano a proposito della forza rivelatrice del silenzio, della sua capacità di dire meglio di tante parole: In certi momenti di silenzio interiore, in cui l¿anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori delle forme dell¿umana ragione.

      Lucidissimamente allora la compagine dell¿esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel silenzio, ci appare priva di senso, priva di scopo, e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d¿immagini si sono scisse e disintegrate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e 83 della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero.27 Ma Asma nasce, in principio, come la storia di una vicenda incentrata sulla minaccia della morte in cui resta centrale il corpo nel momento in cui vien meno il respiro, ovvero nel momento in cui si acutizza la percezione. In questo, come suggerisce Paul Shilder giocano un ruolo fondamentale gli orifizi, che sono sì luoghi del confine tra esterno e interno, tra sé e mondo, ma solo in apparenza, essendo invece questa consapevolezza affidata alla nostra percezione, che avviene sempre qualche centrimetro in dietro rispetto alla superficie: Les points les plus importants du corps en sont les orifices, et, naturellement, il sont le siège de sensations très particulières. Quand nous respirons en fermant la bouche, nous éprouvons des sensations particulières dans le nez; mais aussi quand nous respirons bouche ouverte et que nous ne sommes pas conscients de repsirer, et même quand nous arrêtons de respirer, nous sentons distinctement l¿intérieur des narines. Ce qui est important, c¿est que nous les sentons près de 27 Luigi Pirandello, L¿umorismo, a cura di Daniela Marcheschi, Mondadori, 84 l¿orifice, non pas vraiment au bord de narines mais à environ un centimètre en retrait. À ce niveau, nous sentons ou bien quelque chose de spécifique, ou bien la fraîcheur de l¿air. Il en va de même pour la bouche.

      Nous ne sentons pas notre bouche véritablement au bord des lèvres. La zone sensible est, là encore, à environ un centimètre en retrait. Quand nous respirons par la bouche, nous sentons l¿air sur la voûte du palais mais il semble que nous le sentions aussi dans le tiers antèrieur de la cavité buccale. Si nous respirons très profondément, nous sentons l¿air au fond de la bouche et même dans la région du sternum: mais pas plus bas que la pointe du sternum et pas plus avant qu¿à un ou deux centimètres de la surface. Nous pouvons dire d¿une manière générale que les zones les plus sensibles du corps sont situées près des orifices, mais à un ou deux centimètres en retrait de la surface.28 In tutte le sequenze della cornice di Asma, quelle in prima persona, al tempo presente, in cui si racconta appunto della crisi respiratoria avvenuta nella stanza del Grand Hôtel di Milano 2011.

      28 Paul Schilder, L¿Image du corps. Ètude des forces constructives de la psyché, Gallimard, Paris 1968, pagine 12-13.

      85 Vienne, nella Valle del Rodano, appare come costante il passaggio dalla percezione corporale, esasperata dalla gravità della situazione, all¿esterno della quotidianità e all¿esterno della memoria, del passato.

      Soffoco.

      Gli occhi roteano da un punto all¿altro del loro abitacolo. Le iridi si slanciano verso l¿alto inficcandosi sottole palpebre superiori o, in diagonale, verso la tempia e la radice del naso, esibendo due mezze sclerotiche da martire, due bianche mezze lune orlate dal taglio bagnato e rosa della palpebra inferiore.

      Vorticano e vertiginano. Maelström del respiro. Amen, pazzo, irresponsabile, deflagra, atomizzando i secondi del proprio tempo, il boato del telefono. La voce risponde pianissimo, a monosillabi timbrati, disperati: oui, non, pas encore? essayons, et le pompiers? vit¿ trac. Cornetta riappesa. Microfono appoggiato con cautela. Gesti officiati in punta di gesto. Il laser del pipistrello morente si è cavernizzato in un rantolo assordante: da licantropo col raffreddore, da fantasma che riattiva una segheria abbandonata, e questa volta si è deciso: ci dà dentro. I capelli¿ i capelli¿ aiuto, sono diventati di marmo, pesano sulla nuca, non resisto, il pettinino¿ dov¿è per tirarli su, come faccio a 86 dirlo?, aiuto, ora schiacciano il sommo della testa, intorno alle orecchie stringono, la spaccheranno, vedrai, e il cervello, spiaccicato, li appiccicherà tutti, in ciuffi, poi vàlli a spicciare, con la spazzola, vedrai che rogna e che male, si strapperanno ciocca per ciocca, e rimarrò calva. Chi mi salva?29 Fondamentale, come s¿è accennato sopra, il collegamento tra la propria morte e quella della propria madre, che è apparentemente affidato alla banale invocazione del linguaggio quotidiano («mamma, come si soffre¿») e invece è decisivo.

      Vecchia.

      Ora, morta, e non ancora. Non ancora. Che peccato. Non posso spiegare niente a nessuno e gli occhi¿ ecco, stanno per schizzare fuori, li sento sgusciare via dalle palpebre come lupini dalla buccia, ma, possibile?... il bulbo dovrebbe far capo a un fascio di nervi, muscoletti, filamenti che lo ancorano dentro l¿orbita¿ mamma, come si soffre a morire¿ Ti ho vista la fatica che hai fatto, povera mammetta ¿ altroché ¿ in quei due giorni, uno passato a occhi sempre aperti, l¿altro con gli occhi 29 Asma, cit., pagine 6-7.

      87 sempre chiusi, sempre nella stessa posizione, e non finivano proprio mai, soprattutto il profilo era sbalordito, la bocca aperta in controluce sembrava un¿amaca vuota, ma di faccia, quando mi alzavo in piedi per guardarti meglio, per guardarti tutta, eri proprio spiccicata l¿Eva di Masaccio, il nero disco di un¿eclissi al posto della bocca.30 «L¿Eva di Masaccio» è l¿unico riferimento diretto presente in questo testo a un¿immagine dipinta: l¿autrice ha smesso di respirare, è sul punto di morire, e in una sorta di parallelismo 30 Ibidem, pagine 8-9.

      88 rievoca l¿immagine della bocca della madre morta, spalancata sul buio («il nero disco di un¿eclissi»). Poco più avanti, la scrittrice constata che non avrebbe mai pensato che «il terrore potesse somigliare così tanto alla pittura», rivelando quella che si dimostrerà essere nei suoi testi successivi la sua vocazione principale: la capacità di conferire ai propri versi una potenza visionaria notevole. Specie nella rappresentazione della «violenza della realtà», per dirla con le parole del pittore Francis Bacon, molto amato anche da Giovanni Testori: non a caso, infatti, l¿espressionismo di Ludovica Ripa di Meana può essere a buon diritto accostato a quello del narratore, drammaturgo e poeta lombardo.

      Una visionarietà, quella testoriana, che mi sento di evocare a maggior ragione, alla luce del brano seguente, dove la resa dei conti con la propria morte in parallelo alla resa dei conti con la morte della propria madre diventa il momento di riconoscimento del proprio daimon, che appunto per i greci stava alle spalle della persona, risultandole invisibile. Un daimon che si confronta con l¿immagine di una madre-Dio, «più a portata di mano e meno complice» di Dio: 89 Ma quel che non riesco a perdonarmi, neanche ora che sto morendo io, è di averti guardata, addirittura scrutata, nel primo dei due giorni, quello che ti sei campato per intero con gli occhi tutti sbarrati. Non avrei mai pensato che il terrore potesse somigliare così tanto alla pittura, potesse roteare così irredento dentro due occhi fissi. Io non dovevo osare, con il mio sguardo. Né gli altri, avrebbero dovuto. Bisognava tirare cortine intorno a te che rendessero inviolabile il vitreo panico dei tuoi famosi occhi azzurri, la indecente staticità della tua sofferenza. Eri sacra, remota, non come adesso che sei morta da quasi quattro anni e che ti sfrutto come invocazione domestica nella mia agonia¿ è vero che ti intercalo con Dio, ma tu sei più a portata di mano e meno complice¿ La tua irraggiungibilità metteva terrore, non c¿entrava un bel niente con quel caos di esperienze irritante e consueto che consideriamo essere proprio la vita¿ tu respiravi da morta, guardavi da morta, tacevi da morta¿ imperturbabile come una morta, eri viva. Premonizione capovolta, eri già il sogno che avrei sognato, ma accarnato lì, un sogno da odorare, da controllare, da toccare e, soprattutto, da non lasciar svanire¿ madre troppo grassa, madre troppo magra, cicciona, scheletrica, 90 ricca-ricca, povera-povera, madre sempre troppo¿ autoritaria, umiliata, dura, delicata, fredda, sensuale, indiscreta, intirizzita. Temeraria, intelligente. Con le tue perle, anche tu.31 Il congedo dalla madre, che diventa memoria e dunque appropriazione avviene, ancora una volta, attraverso un dettaglio della quotidianità, «Con le tue perle, anche tu.», che è il segno apparentemente superficiale del riconoscimento di una genealogia, non solo e non tanto nel senso di un¿ereditarietà e di una tradizione, quanto piuttosto nel senso, tutto simbolico, del riconoscimento identitario, di un sé necessariamente relazionale, che non esiste senza l¿altro.

      E, infatti, è alla madre che l¿autrice chiede di raccontare la propria infanzia, riproponendo il processo edipico per cui la propria storia è inconoscibile se non raccontata da un altro: Ma mi dici com¿era la bambina, non mi ricordo più niente¿ che faceva, dove? ¿ Mi indicate il niente. Ci vado ricca. Per escluderlo.32 31 Ibidem, pagine 9-10.

      32 Ibidem, pagina 11.

      91 Seguono una serie di capoversi, di circa una pagina ciascuno,33 quasi lasse di un poemetto di ricordi che affiorano dall¿infanzia, cuciti da un incipit anaforico, ennesimo segnale di un¿evidente tendenza del testo a una dimensione performativa, orale, tipica della poesia popolare: «La bambina si sdraiò, pancia a terra¿»; «La bambina voleva volare¿»; «La bambina aveva chiuso gli occhi, strizzandoli forte¿»; «La bambina lì per lì si era offesa¿», «La bambina era rimasta immobile, i pugni stretti nelle tasche¿»; fino all¿ultimo, che, riproponendo ancora una volta una struttura circolare, va a terminare da dove aveva cominciato: «Quella notte la bambina sognò sua madre¿».

      Poi, una sequenza ospedaliera,34 che ritorna al presente, all¿inizio del testo, alla crisi di asma. Anche qui l¿incipit dei capoversi è segnato in maniera forte: 33 Ibidem, pagine 11-17.

      34 Ibidem, pagine 17-19.

      92 «Prima: un corpo grande, posato a casaccio sul lettino¿»; «Poi: verso le sette del mattino¿»; «Poi: verso le nove, nel corridoio¿»; «Poi: verso le undici, nella terapia intensiva¿»; «Poi: alle quattro del pomeriggio, come una malata di mente¿»; «Poi: alle otto di sera, appoggiata ai cuscini¿» per concludersi con un capoverso dal passo decisamente elegiaco, in cui la musicalità della frase riconduce al clima dell¿immagine infantile conclusiva: Sulla striscia di asfalto, bordata di stoppie e cespugli di salvia, ormai lontani nel tronco di cono che si allunga sempre di più nel retrovisore, dopo tre giorni un padre infelice vestito di bianco, mi saluta. Accanto a una figlia, infelice, vestita di rosa come quando era bambina.35 La conclusione della scena con il saluto finale della figlia alla narratrice, che la vede andarsene vestita del colore con lui la vestiva da bambina, è la scintilla per incastrare, in questa 93 struttura di richiami figlia-madre, l¿altra struttura madre-figlia: in cui la narratrice da figlia diventa madre.

      La sequenza successiva, infatti, mette in scena il dialogo tra la narratrice e il suo lettore, ricalcando quello che possiamo ipotizzare essere stato un dialogo tra l¿autrice e il marito, che sappiamo lettore fin dalle prime pagine di questo testo.

      ¿ Ma come? Non fai finire la bambina volante? ¿ ¿ Non lo so. Non ora, ora no. Ora voglio ricordare la MIA bambina, la mia abbandonata bambina, e il suo abbandonato FRATELLO, i miei due abbandonatissimi figli¿ ¿ Ma quando mai? Ti confondi, hai abbandonato il padre¿ ¿ ¿ e tutto per inseguire l¿amore, l¿amore assoluto¿ ¿ Cielo, che enfasi! Sì, ma sempre con loro appresso, lo inseguivi, per modo che quei poveri amanti se ne trovavano tre alla volta sul groppone! ¿ Non usare questo tono, proprio ora¿ ¿ Ti do una mano per non affogare in un paté di pathos: morendo, posso capirti, la tentazione è grande. ¿ Abbandonati, abbandonatissimi, straabbandonatissimi¿ ¿ E piantala! Non ti ricordi quando il padre te li ha presi e tu, per riaverli, un biennio di avvocati, una figlia nuova, sua di lui, con un¿altra, e tu, che un altro 35 Ibidem, pagina 19.

      94 po¿ e ti partiva il cervello¿ non ti ricordi, no? ¿ Esageri¿ ¿ Vorrai dire che esagera il diario¿ (Tippettandosi il lobo destro) Come fa? Come fa?36 Seguono, infatti, pagine di diario che ricostruiscono gli ultimi giorni del febbraio 1962, trascorsi a Genova.37 Ma sono le date stesse (28 febbraio, ma poi 29, 30, 31 e 32 febbraio) a dichiarare una scrittura a posteriori, in cui l¿eventuale presenza di un testo originario, storico, cede il passo alla sua riscrittura, alla voce che racconta ora i sentimenti materni della narratrice.

      A queste aperture di memoria si contrappone la chiusura del corpo che non respira, la situazione di stallo delle funzioni vitali che precede la morte, come a sottolineare per contrasto la vitalità dei ricordi, della consapevolezza della propria vita.

      Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo.

      Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo.

      Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo.

      Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo.

      Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo. Sto morendo. 36 Pagine 19-20.

      37 Pagine 20-34.

      95 Nella tomba i muri son fatti così. Fanno casetta.

      Soffoco. Non riesco a strapparmi via lo sterno, è lui l¿osso che mi si è conficcato in petto fin dalla nascita.

      Le mani a furia di raspare riusciranno e raggiungere la guaina del pettorale e la acchiapperanno, la scheggia maledetta che mi sta ammazzando. Non è lo sterno.

      Non è lo sterno, e lo sterno non è una scheggia. È asma, solo asma, asma pura, asma distillata, asma tutta per te. Aiutami, ninno, aiutami, la luna¿ ora il sangue sprizza dalle orecchie, dalle dita dei piedi, divento fontana, anche dall¿ombelico, dal culo, no, è tutto imballato, non esce niente. Nemmeno il respiro.

      Dio.38 Questo contrasto si fa evidentissimo quando, come nella sequenza che segue, Ludovica Ripa di Meana arriva a cogliere nell¿essenza del rapporto con la propria madre («quel paso doble, dall¿inizio della vita») l¿essenza della propria personalità: il proprio daimon, appunto.

      La bambina afferrò con la sua sinistra, la mano destra della madre che stava guidando, e non la mollò più.

      Aveva tre anni, un vestito blu a puntini bianchi e una 38 Ibidem, pagina 35.

      96 fascia di filanca che le teneva indietro, stempiandola, i fini capelli lisci e corti. Non parlava, né si voltava. La fronte alta e leggermente bombata disegnava il promontorio di una sua concentrazione criminale.

      Guardava davanti a sé, all¿altezza del cruscotto, e lasciava penzolare i piedi nel vuoto con calma ferocia.

      E calma e feroce strizzava la mano della madre, soprattutto quando la sentiva svincolarsi nei gesti della guida. L¿altra cominciava a percepire la mano tonda della figlia come un¿escrescenza nata all¿interno della propria grande mano asciutta, un raddoppio miniaturizzato e un po¿ mostruoso e, arresa, le muoveva velocemente all¿unisono, quella mano e quella manina, intorno al volante, sul cambio, sulle frecce, convinta ormai che avere le mani fosse sempre stato così, quel paso doble, dall¿inizio della vita.

      Quando la ottoecinquanta si fermò all¿ombra, sotto la casa di suo padre, la bambina cominciò a strofinarsi il dorso della mano materna contro la guancia piano piano con moto circolare, gli occhi perduti su un¿asta sciancata del tergicristallo (l¿altra giaceva a destra perfettamente svenuta) che, azionato per sbaglio, ruggiva sul vetro calcinato dal sole di luglio, mentre di profilo la madre, conteso con uno strattone alla figlia quell¿involtino di mani, ci si 97 asciugava una biglia di lacrima proprio alla radice del naso. Si tenevano. Non si guardavano. Di profilo.

      Tassative. Con il loro amore tremendo. Così, più o meno, andavano le cose, intorno alle quindici, in un giorno del millenovecentocinquantanove, appunto, di luglio. Per dire. Di una inconsolabile bambina. Anzi, di due.39 Per rendere l¿eterogeneità con cui è composto questo testo, Asma, e la difficoltà di attribuzione a un genere letterario che non sia la scrittura privata, autobiografica, basti rilevare come a questa sequenza ne segue un¿altra intitolata Lui la mamma l¿altro,40 vero e proprio testo teatrale, un breve atto unico che si conclude con una filastrocca per bambini.

      Poi «un ricordo roseo, pasquale, di papà,41 piuttosto breve, e quindi Storia di En, in terza persona, ennesima variazione autobiografica: ¿ sapeva che le sue vite erano lì, con lei, non tessute insieme ma accostate, una accanto all¿altra, ognuna col suo mistero solitario di oggetto. En entrava in una 39 Ibidem, pagine 36-37.

      40 Ibidem, pagine 38-48.

      41 Ibidem, pagine 49-53.

      98 nuova vita come in una casa, e chiudeva la porta.

      Posava intorno a sé i segni della sua solitudine precedente, e penetrava con una passione disperata in quella, sconosciuta, che le stava davanti. Fino a quando non avesse avuto la rivelazione più remota di quanto inesauribile fosse la sua solitudine, En non sarebbe più uscita da quella casa che lei, parafrasando, chiamava amore.42 Poi, dopo un sogno di morte43 a precedere le pagine di diario che raccontano gli ultimi incontri e la morte di G*44, chiaramente identificabile con lo scrittore Carlo Emilio Gadda, che sono oggetto del capitolo seguente «Il nodo alla cravatta».

      La Storia di En riprende descrivendo un circolo tutto femminile intorno al quale nasce e si sviluppa l¿amicizia tra due bambine. Ancora una volta la storia prende l¿avvio con una successione di capoversi che procedono come lasse di un poema, fortemente segnati nell¿incipit dall¿evocazione del personaggio di cui si parla: 42 Ibidem, pagina 55.

      43 Ibidem, pagina 59.

      44 Ibidem, pagine 59-70.

      99 «En. La sua migliore amica aveva i capelli rossi e una bambola di celluloide e gomma che si chiamava Flavia¿«» «En amava morbosamente Flavia. Un po¿ meno, la sua migliore amica¿» «La cugina della sua miglior amica era loro coetanea e passava anche lei per migliore amica¿» «La sorella più grande, in effetti, era bella davvero, a dodici anni era bella come una sposa del deserto¿» «Del fratello, c¿era poco da dire¿» «La madre, festeggiata dagli anziani genitori azkhenazi e dalla sua unica sorella [¿] come una gran bellezza¿» Una narrazione che procede per personaggi, che sono sempre, nei testi di Luvodica Ripa di Meana, persone, di cui si coglie la fisicità, la psicologia, l¿estrazione sociale, la realtà.

      Questa struttura narrativa, imperniata intorno a un personaggio, rappresenta un¿inclinazione, un punto di vista, quasi uno stilema narratologico di Ludovica Ripa di Meana, facilmente riconoscibile nella maggior parte dei suoi testi, come dimostrerò nel capitolo decimo, intitolato «Soggetto».

      100 La storia delle bambine e della bambola Flavia s¿interrompe con l¿allontanamento dovuto ai casi della vita. En e l¿amica si ritrovano, a distanza di anni, quando quest¿ultima la convoca in punto di morte.

      Quindi il testo torna al presente e al ricordo della madre che appare all¿autrice come fantasma45 in un¿allucinazione, in pieno giorno, mentre è alla finestra, piangendola, poco dopo la sua morte.

      Di nuovo, la Storia di En prende voce e si riempie di memorie della giovinezza, ancora una volta con tutta evidenza autobiografiche.

      Infine, il presente, l¿asma, in una sequenza estremamente significativa dal punto di vista simbolico, in cui alla crisi respiratoria si sovrappone la vocazione alla scrittura: l¿idea del recupero del respiro è rappresentata come la necessità di urlare (che è anche gridare, gridare il proprio dolore, e quindi per traslato cantarlo, raccontarlo e raccontarselo, dunque scriverlo).

      Urla. Ora urla. Urla qui. Proprio. Una sirena urla. Mi urla. Nel petto, in testa, urla, attraverso. Verso. Il porto. Lì. Urla. Sirenaurla. Oh, Sire. Oh. 45 Ibidem, pagine 82-84.

      101 Sire, sirena, sirenetta, sirenella, chiamarsi almeno Serenella, un po¿ come loro, le stupende misteriose, le ondulanti capigliate di blu, che salgono lente e poi, con un sorso, s¿inghiottono da sé. Oh, allungare da sott¿acqua tesori ai marinai, acqua in bocca volare negli abissi, far buchi nell¿acqua per tenersi a galla, aver l¿acqua alla gola per innamorare e i mozzi e i galeotti e i re. Oh, essere sirena, Sire, per una volta sola, i freddi seni crudi di nuovo, le spalle belle e l¿arco della schiena inarcato in viola come lo spicchio della luna dentro un night. Ma allora perché urli, sirena sirenetta nemmeno Serenella, e squarci di fatica il soffio che non abbiamo più? Urli perché sei chiusa, urli perché sei serrata, combaciata, segregata, urli perché sei interrotta, inclusa, insaccata. Urli perché sei impesciata. Urli, senza la fica. Urla, la fica, d¿asma.46 L¿immagine finale, liberatoria e rivelatrice, coincide con quella dell¿antica divinità Baubo,47 riconducibile all¿archetipo della Grande Madre. Baubo è priva del capo, come d¿altro canto appaiono mutile degli arti molte divinità primitive femminili, 46 Ibidem, pagina 94.

      47 Si vedano in proposito i riferimenti bibliografici della nota 14 a pagina XX.

      102 legate alla terra e alla sfera della fecondità. Baubo parla tramite la vagina, evocando simbolicamente un parlare fatto di materia prima, un parlare vitale che trae origine dalla propria natura e dalla natura in genere; e, infatti, a questa dea primitiva si è sovrapposta la figura di Iambe, a cui ¿ con erronea, ma felice etimologia ¿ si fa risalire l¿origine del verso caratteristico delle parti dialogate della tragedia, il giambo.

      In questa sequenza si condensano molti elementi interessanti e rivelatori della scrittura di Ludovica Ripa di Meana: l¿immagine iniziale delle sirene, ad esempio, è caratterizzata da un giocare con le parole, affidandosi al loro suono, inseguendo il fascino della loro musica, tipico dell¿infanzia e, come ha ben evidenziato Julia Kristeva ¿ e come spiegherò meglio in seguito ¿ appartiene all¿«ordine semiotico della madre». In più, come a sottolineare la necessità di un parola fertile, naturale (nel senso di primigenia) e quindi veritiera, che è poi anche un evocare la scelta di una letteratura necessaria, al canto delle sirene, seducente quando sterile, si sostituisce quello della fica - Baubo, osceno quanto fruttifero.

      Il tempo di un¿altra storia, di cui è protagonista ancora un volta una ragazzina e di cui la narratrice pare essere solo una 103 testimone, e siamo alla sequenza finale, dominata dall¿immagine di un parto simbolico: Perché scricchiola il mondo? E cos¿è questo rombo totale? Ecco che si volta¿ si volta¿ La clessidra48 ora è capovolta su sé: cola la sabbia tutta uguale, e mi riempie. Mi scoppia il cuore. Chi preme ora? io, devo uscire, tutto stringe, si stringe, forza signora, spinga, spinga ¿ allora sono loro, tutti e due insieme, spingo, spingo, che buio però, cos¿è ora, dove sono finita, in una nassa, no, un cunicolo, che più mi muovo più mi sento stringere, i cerchi concentrici che mi premono il petto contro la schiena, me li incollano insieme, cosa sono? aiuto, lo so, l¿hoola-hop del demonio che arriva 48 «Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: ¿Questa vita, come tu ora la vivi e l¿hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione [¿]. L¿eterna clessidra dell¿esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!¿. Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: ¿Tu sei un dio e mai intesi cosa più 104 verticale dall¿inferno, lo riconosco, l¿ho riconosciuto, gira, cinge, strina, brucia sempre più veloce, mi stritola,49 ecco, stritolata, sfarinata, incenerita, dissolta, ah, meglio ora, il cuore bussa lontano, potrò dormire, i cerchi sono tornati costole, posso alzarmi, leggera, vuota, né carne, né pelle, né occhi, né bronchi, solo ossa più bianche della luna, solo sterno, e costole snelle piene di vento. Un vento silente. Immobile. Un vento che En poteva volare.50 Il richiamo al «vento che En poteva volare» che si sovrappone e si confonde con il riconquistato respiro riconduce il lettore a una delle prime sequenze del testo, in cui la bambina aveva sognato di poter volare e, con ennesimo gesto circolare, le divina¿?» Friedrich Nietzsche, aforisma 341, in La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, Milano 2005.

      49 «Così discesi del cerchi primaio / giù nel secondo, che men loco cinghia / e tanto più dolor, che punge a guaio. / Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: / essamina le colpe ne l¿intrata; / giudica e manda secondo ch¿avvinghia. / Dico che quando l¿anima mal nata / li vien dinanzi, tutta si confessa: e quel conoscitor de le peccata / vede qual loco d¿inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa. / Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: / vanno a vicenda ciascuna al giudizio, / dicono e odono e poi son giù volte.» Dante Alighieri, Inferno, V, vv. 1-15.

      50 Asma, cit., pagina 98.

      105 ultime righe di Asma tornano da dove il testo aveva preso l¿avvio: Francia, Valle del Rodano, Vienne, Grand Hôtel du Nord, terzo piano, stanza 308. Bussano. Entra Kiledjian Eric, 01 ¿ Omnipraticien Conventionné.51 51 Ibidem, pagina 99.

      CAPITOLO QUARTO Il nodo alla cravatta La sequenza di Asma che riproduce pagine di diario della primavera del 1973, con l¿appendice dell¿ultima, datata 1° gennaio 1974 (la quale però esordisce dichiarando l¿intento di ricordare la sera in cui morì Carlo Emilio Gadda, il 21 maggio 1973), costituisce una sorta di monade maschile all¿interno di un testo costruito intorno a concentrici intrecci femminili.

      Il fatto che il libro sia compreso fra i due poli della morte e della madre in parte rende plausibile l¿inserzione del ricordo del massimo esponente del barocco novecentesco all¿interno della cui opera questi due elementi costituiscono nuclei tematici assai rilevanti. Ma non basta. La presenza di «G*» può essere compresa, nella sua profonda ragione, solo se vi si scorge una sorta di dichiarazione di poetica, indiretta e ancora ¿ 108 m¿azzardo a dire, accettando l¿ossimoro ¿ quasi inconsapevole, come sfuggita di mano.

      Prima di procedere, vale conoscere queste pagine che riporto per intero, sia perché altrimenti irraggiungibili per il lettore, sia perché costituiscono una cartina di tornasole fondamentale per un discorso critico su Ludovica Ripa di Meana che cerchi di individuare elementi della sua genealogia letteraria e la matrice profonda della sua scrittura.

      5-2-73.Domani pomeriggio vado a trovare G*. sono stata da lui una quindicina di giorni fa, il 18 o il 19 gennaio. Erano mesi che non lo vedevo, da maggio, e ho visto con sollievo che la sua faccia era distesa, colorita, e il suo sguardo chino si è acceso quando lo ha levato per guardarmi negli occhi. Aveva il plaid sulle ginocchia, la vestaglia color marrone, i capelli tagliati di fresco. Come sempre ha fatto il gesto di alzarsi ¿ il profilo si abbassa, come un lento fendente in diagonale, da sinistra verso destra, sulla mano e sul braccio appoggiati alla poltrona, per ricavarne l¿energia necessaria a sorreggersi sulle gambe disabituate. Giuseppina1 era vestita di nero: le era 1 La governante di Carlo Emilio Gadda, Giuseppina Liberati, che fu nominata dallo scrittore sua erede universale.

      109 morta la madre. Pallida, la larga faccia malinconica si è aperta sulla porta di casa alla prima chiacchiera, rivelandomi che, da maggio, oltre a una madre, lei, la Giuseppina, ha perso alcuni denti essenziali. Ho parlato con G* del Marocco, della Spagna, delle città d¿Italia dove in questi mesi sono stata per lavoro. G* ha reagito poco, isolando col suo silenzio i miei racconti in un lungo elenco di cose dette. Ho provato, allora, a chiedere notizie di questo periodo: chi era venuto a trovarlo, come sta la sorella Clara, se aveva fatto delle letture. G* confondeva e chiedeva continuamente soccorso a Giuseppina. Mentre ero lì, sono venuti a salutarlo una bambina di circa 10 anni, con il grembiule di scuola ancora addosso, e il cuginetto di 2 anni. Abitano sullo stesso pianerottolo.

      G*, rivolgendosi alla bambina, l¿ha chiamata più volte ¿signorina¿, non senza deferenza me l¿ha presentata; poi occhieggiava dove fosse andato a finire il frùgolo in minipaltò di pelle nera, e lo chiamava forte dicendo: ¿Vieni a salutare la signora Meana, vieni da nonno, vieni!¿. ¿ Più tardi Giuseppina ci ha dato due tovagliolini di tela, e ci ha portato l¿amaro e una fetta di pizza dolce di sua confezione. Si è messa seduta, a parlare. Per Giuseppina, G* è ¿¿a criatura¿, la sua creatura, l¿unico figlio che ha, di età oscillante tra 110 nascita e svezzamento (svezzamento di campagna, non di città, quello che si celebra verso i due anni). Lo si rileva soprattutto da come ne parla. Intanto, il primo segno è che gli parla addosso, sopra, come se lui non ci fosse o fosse, appunto, un infante di pochi mesi. Poi, G* nei suoi racconti è ridotto alla funzione di oggetto (oltretutto di sua proprietà), e non ha titolo per concedersi reazioni davanti a cui lei, Giuseppina, possa essere visitata dalla perplessità. ¿ ¿Ieri gli ho fatto pasta e broccoli. Gli è piaciuto tanto; se ne è mangiato un piattone così. Delle mele, si mangia¿ tanta frutta, tanta¿. Alza la testa a sottolineare la quantità col mento, e con le mani si ravvia la sottana.

      ¿Ora che è inverno, lo lavo tutto coll¿alcol¿, ricomincia, ¿e coll¿acqua di colonia, perché ci ho paura dell¿acqua, capirà, se mi piglia qualcosa¿ Gli faccio i massaggi sulla schiena, sulle braccia, ovatta e alcol, un bottiglione, nelle parti delicate¿¿. E le indica su di sé, le parti delicate. G* si agita sulla poltrona, dice: ¿Ma no, Giuseppina, c¿è la signora¿, piagnucoloso, infastidito.

      Giuseppina lo zittisce con energia: ¿Be¿? che vuole?¿, ed è il suo colpo sul manubrio della carrozzina quando il neonato, dal sonno, improvvisamente si sveglia e piange. Poi, per attenuare, si alza, si china su di lui vergognoso e con la testa bassa, gli 111 mette sotto la sua testa capovolta per guardarlo, lo tocca sul torace, gli fa un po¿ di solletico ridendo, e gli dice: ¿Perché, che c¿è di male? che non gliele faccio, tutte queste cose?¿. E lui, rassicurato, accenna un sorriso muto e malizioso che subito trasmuta nella consueta desolazione. ¿ Un pomeriggio, con Giancarlo2 capitammo da G* all¿improvviso. Erano le cinque e mezzo, forse le sei. Suonammo, e Giuseppina ci aprì. Dietro di lei, in fondo al corridoio, era illuminata soltanto la cucina dove, in piedi, stava una sua amica. Nel resto della casa le luci erano spente.

      ¿G* riposa?¿, chiedemmo pronti a andarcene. ¿No, no.

      Vengano, vengano¿. Entrammo nella camera da letto, che era buia, con le persiane serrate. Giuseppina armeggiò intorno alla lampada. Il cono di luce isolò, come su un palcoscenico, la poltrona dove G* era seduto, un po¿ chinato in avanti, fermo, lo sguardo 2 Giancarlo Roscioni, uno dei massimi studiosi dell¿opera di Carlo Emilio Gadda: il suo La disarmonia prestabilita. Studio su Gadda, Einaudi, Torino 1969, è ritenuto un classico della critica gaddiana. Allo scrittore ha dedicato anche una biografia: Il duca di Sant¿Aquila, Mondadori, Milano 1997. Collaborò alla realizzazione dell¿ultima intervista televisiva allo scrittore, di cui Luvodiva Ripa di Meana è stata ideatrice, conduttrice e regista: Carlo Emilio Gadda per la serie televisiva «Sulla scena della vita».

      Una versione ridotta dell¿intervista è edita in videocassetta nel documentario Gadda racconta Gadda, a cura di Mauro Bersani e Maria Paola 112 fisso davanti a sé, come immerso in profonda meditazione. ¿ Ferita, pensai che Giuseppina applicava su quell¿uomo da venerare le dure leggi della povertà contadina. La luce era superflua quella sera: G* non leggeva, era solo perché lei conversava con l¿amica in cucina, non faceva altro che pensare. A che serviva la luce? ¿ E mi venne in mente un¿altra esperienza: il giovane tappezziere siciliano, grasso, bonario, onesto e spuntuale che teneva il suo laboratorio nel cortile di un casermone popolare in via Salaria. Una sera, verso le sette e mezzo, andai a cercarlo. La porta del laboratorio era chiusa. Bussai.

      ¿Entrate¿, mi rispose una voce. La stanza antistante il laboratorio era alta e stretta, immersa in un buio assoluto. La luce della sera rischiarava appena il cortile, ma rispetto alla compattezza nera che mi ero trovata all¿improvviso davanti mi aiutava con fatica a penetrarla. Il pavimento era coperto di striscioline di canna e da mucchi di paglia e saggina. Le pareti, nude.

      Nient¿altro. Al centro, come una divinità incomprensibile di un tempio sepolto, su uno sgabello era seduto un uomo che teneva tra le ginocchia una sedia a cui le sue mani lavoravano velocissime. ¿Tonio non Orlandini, regia di Antonella Zecchini, Rai Educational, 2003, allegato al volume di Mauro Bersani, Gadda. La vita e le opere, Einaudi, Torino 2003.

      113 c¿è¿, disse l¿impagliatore, ¿sono lo zio¿. E gli occhi rivolti a me erano bianchi, tutti bianchi come gli occhi dei ciechi.

      14-3-73.Venerdì, la voce fioca di G*, al telefono: ¿Viene?¿. Quando sono arrivata verso le cinque, ho trovato una situazione alterata. Giuseppina non portava il solito pigiama rosa acceso e i calzerotti di lana: era vestita di tutto punto e sembrava particolarmente indaffarata. Nella stanza, seduta sulla sedia-poltrona, le gambe accavallate, l¿amica di Giuseppina sfogliava un rotocalco senza dar retta a nessuno. G* pallidissimo, la testa in avanti a ostacolare il risucchio invisibile che dalla nuca gli tende la pelle sulla fronte del naso sulle tempie svelando la struttura del teschio, aveva dipinta sul volto un¿ira tremenda. I capelli divisi in ciuffi bianchi dritti, le mani immobili sulla coperta in disordine che gli cadeva da un lato. Il tono della voce di Giuseppina era alto, provocatorio.

      ¿L¿ingegnere oggi ha le madonne, povero cocco! È da stamattina che mi dice certe parole¿ un po¿ grassette¿. Non faccio in tempo a meravigliarmi dell¿uso dell¿aggettivo, che lei conferma: ¿Un po¿ troppo grassette¿. G*, immobile, non reagisce. Solo 114 sulla fronte ora c¿è un segno rosa, verticale. Mi sento a disagio, vorrei non assistere. La presenza della donna che legge il rotocalco imperterrita, mi disorienta ancora di più. Afferro il libro dei Luigi di Francia3 e lo apro al segno, ma Giuseppina non si arrende. Capisco che non scherza. ¿Lo dico, che belle paroline mi dice?¿, domanda esasperata chinandosi su G*, che non la guarda e non accenna a un minimo gesto, alla più piccola reazione. ¿Troia, mi ha chiamata. Brutta troia¿.

      Sorride, guardandomi, ma ha la faccia rossa e ricompone le labbra umiliata. G* finalmente si volta, alza con odio gli occhi su di lei e ringhia: ¿Mi lasci in pace¿. ¿`Mi dispiace di non averla fatta con lei la troia¿, gli ho risposto¿, continua Giuseppina facendo una specie di riverenza-piroetta all¿indirizzo di G*. Poi va in cucina a preparare il caffè. Comincia la lettura.

      Sono turbata e triste quasi quanto immagino debba sentirsi G*. E anche Giuseppina, credo. Poi lei esce a fare la spesa. Anche l¿amica va via, dopo aver chiesto al ¿professore¿ se deve fare la pipì. Rimaniamo soli. Io continuo a leggere, lui continua a ascoltare. Faccio fatica e sento che anche G* fa fatica. Come mi sembra intima, remota ¿ felicità perduta di nemmeno un 3 Carlo Emilio Gadda, I Luigi di Francia, Garzanti, Milano 1964.

      115 mese fa ¿ la lettura del Pasticciaccio4 interrotta da: ¿Liliana, è vero, allude a qualcosa di mia sorella Clara, vedova A¿ giovane, la mancata maternità, poverina¿¿; o quando mi faceva rileggere interi capoversi, tutti siglati poi da un brontolio: ¿Accettabile¿ be¿, questo mi pare accettabile¿¿.

      Passano circa due ore. Rispondo due volte al telefono: l¿avvocato e Giulio C. che annunzia una sua visita con P. per l¿indomani. Quando gli chiedo qualcosa, G* mi risponde con impazienza insolita che non ricorda. A un certo punto, nel testo c¿è un richiamo a Renzo Tramaglino. G* comincia a piangere. Interrompo la lettura, poso le mani sulle sue e gli chiedo perché I promessi sposi lo sconvolgano sempre tanto. Scuote la testa e dice: ¿Ma queste sono cose che non si possono spiegare¿. ¿ Giuseppina, tornata dalla spesa allegra come al solito, mi ragguaglia sull¿aumento dei prezzi.

      Dà la medicina a G*, poi un dito di whisky per rianimarlo un po¿. Abbiamo letto tutto Luigi XIII, la prossima volta attaccheremo Re Sole. Glielo dico già con il cappotto addosso, G* saluta, poi mormora: ¿Mi scusi per oggi¿. Gli chiedo come si sente. ¿Non tanto 4 Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano 1957.

      116 bene¿. Poi aggiunge: ¿Sono vicino alla fine. Grazie, signora Meana, grazie, ma non si disturbi¿.

      16-3-73.Convocata, arrivo col cuore in gola. Ogni volta sbatto le porte interne dell¿ascensore. Suono il campanello. Mi apre una creatura con una sciarpa annodata in alto sulla grossa testa. Ha una guancia deformata, me la addita, e va. Mi avvio nel corridoio dietro di lei. Pompons le ballonzolano sui piedi e porta braghe molli di colore vivo. Sopra, altri stracci colorati. Giro a sinistra. Contro il muro, di profilo, poi di faccia, un grande corpo è addossato a una troppo piccola poltrona da terrazza che non lo contiene. Il corpo trabocca ai lati, è troppo lungo, sta per scivolare all¿ingiù. Le coperte non riescono a fermarlo. Alla cintura della vestaglia è legato con due nodi un tovagliolo bianco che avvolge e tiene fermo il pappagallo di plastica. La testa non si gira. Gli occhi fissano un punto davanti. Le mani sono azzurre, i peli sono duri come fili di rame. Mi siedo su una piccola seggiola, bassa come un inginocchiatoio. È impagliata, sopra c¿è un cuscino di gommapiuma a quadretti colorati. Accarezzo le mani, gli occhi mi guardano senza riconoscermi. Sono annacquati da lacrime non 117 cadute. Le palpebre sono spesse e rosse. Le occhiaie blu. Intorno, una zona di estremo candore, che poi diventa giallo verso il naso e la bocca. Le labbra sono tirate in dentro e non si vedono. La nobile fronte non pare coinvolta nel processo di mortificazione. Comincio a leggere le righe, le parole di ogni riga, e vorrei staccarle dal foglio e spingerle una per una col pollice, nella testa che ho di fronte. Le orecchie non stanno ascoltando, gli occhi non stanno vedendo. Forse la pelle, la carne, possono assimilare l¿inchiostro delle parole e ingoiarle. Continuo a leggere e ogni tanto appoggio le mani sulle ginocchia coperte dal plaid per assicurarmi che almeno il corpo sia lì. Voglio trasmettere al remoto prigioniero l¿infinito amore che provo per lui e staccarlo, con rabbia, dalla sua segregazione.

      Sento che la voce, l¿unica voce di questo silenzio, si rincarna appena uscita dalla mia gola, diventa gambe braccia che si tendono verso l¿abbandonata figura per sorreggerla e stringerla a sé. Di tanto in tanto la creatura aux pompons si muove attorno o in mezzo a noi prendendo spostando portando oggetti. Poi, affaticata, trascina senza suono una sedia dalla cucina e ci si disfa sopra, la faccia protesa verso l¿alto, le mani in grembo, povera Giuseppina. Ora il grande corpo di G* è in diagonale, con la testa appoggiata alla spal118 liera, la bocca semiaperta. Intorno al viso un tovagliolo con qualche macchia di sugo e di uovo, gli occhi aperti a metà: biascica spaghetti e piange. Clown desolato, inondato di luce.

      1° gennaio 74.Vorrei ricordare le ore 20, del 21 maggio 1973, all¿interno 13, del secondo piano, di via Blumenstihl 19. Il respiro cambia ritmo, ha una sonorità diversa ¿ cupa eco di un gong percosso in una sala remota dell¿organismo ¿ poi diventa voce il respiro, invocazione, urlo, nitrito. Un terribile nitrito mentre il corpo, spinto animalmente dalle braccia, si stira dentro una lunghezza atroce, abnorme. Di colpo, si ritrae: le braccia hanno tirato le redini a sé. G* ha tirato le cuoia. La misura è tornata misura. Poi i gesti.

      Tenere vecchie palpebre abbassate sull¿umor acqueo; mano sotto il mento e mano al sommo del cranio per comprimere mascellare superiore e mandibola, farli ricongiungere. Non basta, serve una fascia: bendato in testa, come una monaca velata. Poi manichino, girato su un fianco, sull¿altro, dalle pie donne: la spogliazione, il lavaggio ¿ il grande corpo da guerriero nudo con quella piaga fiammeggiante nel fondo della schiena ¿ la vestizione, mentre Giuseppina piange di 119 là, tonta di fatica. Giancarlo, prima sentinella del Dopo, passeggia in corridoio come in un chiostro, tra le chiare mani ha un libro aperto che non legge. Ora che la benda non serve più, basta una carezza contropelo sui capelli, e tornano su a spazzola. Ecco.

      Finalmente giace lo hidalgo, il nonamato, e la sua pietra dell¿unzione è un rettangolo di compensato su una rete. È vestito da prima comunione e ha scarpe nere lucide spropositate. Il nodo alla cravatta, questa volta, mi è riuscito subito.

      Come si può scorgere in queste pagine una dichiarazione di poetica, se non vi si parla quasi per niente di letteratura? Perché ritenere che Ludovica Ripa di Meana in questo modo, anche se con un gesto quasi inconsapevole, stia indicando Carlo Emilio Gadda come punto di riferimento letterario per la propria scrittura? In che modo poi ravvisare in questi episodi la posizione che l¿autrice attribuisce a questo scrittore all¿interno della propria genealogia letteraria? Da quest¿ultimo punto di vista, è cosa nota, Gadda rappresenta una questione spinosa che attraversa il panorama 120 letterario del Novecento. Già Contini lo aveva eletto a emblema di un espressionismo letterario capace di attraversare, anche a ritroso, la tradizione italiana, parlando dell¿«eterna funzione Gadda».5 Nel 1960, l¿anno successivo al buon successo cinematografico del film di Pietro Germi tratto da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana,6 e a stretto ridosso dell¿imminente clamore che avrebbe suscitato la neoavanguardia, Alberto Arbasino, in un intervento critico non esente da slanci autopromozionali,7 aveva coniato l¿etichetta «nipotini dell¿ingegnere », affibbiandola obtorto collo a Giovanni Testori e a Pier Paolo Pasolini, oltre che, ovviamente, a sé stesso.

      Un ben più triste impiego dell¿etichetta arbasiniana è stato fatto nei decenni a seguire, confondendo atteggiamenti epigonici e appartenenza ¿ per lo più dichiarata velleitariamente dal 5 Gianfranco Contini, Quarant¿anni di amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda, 1934-1988, Einaudi, Torino 1989.

      6 Un maledetto imbroglio, Italia 1959. Il film, libera riduzione del capolavoro gaddiano, vinse due Nastri d¿argento 1960, per la miglior sceneggiatura e per il miglior attore non protagonista.

      7 Alberto Arbasino, ¿I nipotini dell¿ingegnere e il gatto di casa De Feo¿ in «Il Verri», n. 1, 1960, pagine 185-210; poi in Id., Sessanta posizioni, Feltrinelli, Milano 1971; poi in Id., Certi romanzi, Einaudi, Torino 1977; infine in Id., L¿ingegnere in blu, Adelphi, Milano 2008.

      121 diretto interessato, prima che riconosciuta in sede critica ¿ alla tradizione espressionista, facente capo a Carlo Emilio Gadda.

      Proprio negli anni Sessanta del Novecento si va, infatti, consolidando l¿immagine di Gadda quale archetipo della modernità narrativa italiana, come aveva intuito con largo anticipo già ai tempi della prosa d¿arte Gianfranco Contini.

      Ma, a ben guardare, si possono percorrere anche altre strade che non siano solo quella dell¿espressionismo; forse, si può provare ad affrontare l¿universo Gadda anche sotto altre prospettive, da altri punti di vista. E non per questo trarne una lezione meno fruttuosa.

      Il colloquio dell¿«editore» del romanzo La cognizione del dolore con l¿«Autore» parrebbe confermare questa ipotesi: E chi, di certa scienza, ha ritenuto poter interpretare il barocco (a volte non meglio definito) come istanza irrevocabile di taluni momenti o indirizzi o tentazioni o mode o ricerche dell¿arte e della creazione umana, una categoria del pensiero umano, potrebbe o dovrebbe forse riconoscere nel barocco, in altri casi, uno di quei tentativi di costruzione, di espressione che meglio si possono attribuire alla natura e alla storia, chiamando natura e storia tutto ciò che si manifesta 122 come esterno a noi e alla nostra facoltà operativa, alla nostra responsabilità mentale e pragmatica.

      Sulla stessa lunghezza d¿onda si pone la celebre dichiarazione dello scrittore, per cui Barocco è il Gadda perché barocco è il mondo e il Gadda ne ha percepito e ritratto la baroccaggine.

      È questa forte matrice realistica la vera natura dello stile gaddiano. Non ci si può e non ci si deve fermare alla parola che, proprio perché immersa nel flusso della vita e nell¿infinita varietà delle cose, «si può stirare, contrarre e metastasare secondo libidine, come la fusse una pasticca tra i denti», senza andare a ricercarne l¿origine come una necessità. Più d¿uno dei nuovi ¿nipotini dell¿ingegnere¿ s¿è limitato invece a gaddeggiare in superficie, ignorando che la forza di uno stile così complesso risiede nella percezione di una corrispettiva complessità del mondo e nello scacco provato di fronte al suo mistero.

      Da qui, la necessità emotiva di una scrittura che fronteggi la violenza della realtà, degli uomini e della società, della storia 123 e della natura. La violenza nell¿opera di Carlo Emilio Gadda si fa «tema strutturale e strutturante», implicando una «costruzione e distruzione dell¿identità»; è strettamente connessa alle «strutture gnoseologiche fondamentali del nostro rapporto col mondo» e risulta pertanto «consustanziale all¿atto della scrittura».8 Si prenda, ad esempio, la vicenda dell¿introduzione di Gianfranco Contini all¿edizione einaudiana del ¿63 del romanzo La cognizione del dolore, la famosa incriminatissima pagina: Non è esagerato ritrovare nella Cognizione del dolore tratti della centralissima figura che si rivela a Marcel «auprès de Montjouvain». E già sarebbe da chiedersi se personaggi del genere, titolari d¿infrazioni tanto (simbolicamente) mostruose (in entrambi i casi, l¿oltraggio recato alla figura del padre), possano essere altro che proiezioni autobiografiche: i loro eccessi, censurati dalla coscienza comune con riguardo ai terzi, ritrovano plausibilità solo nell¿incredibile ma irrefutabile esperienza del soggetto. Intendo che, se Proust è Mademoiselle Vinteuil, nella misura almeno in cui Flaubert è Madame Bovary, egli ha avuto cura 8 Giuseppe Stellardi, La violenza di Gadda, «The Edinburgh Journal of 124 di mascherarcisi; ma che egli assuma in proprio l¿ambivalenza della passione filiale, versata, ben prima della Recherche, nei Sentiments filiaux d¿un parricide, risulta da luoghi decisivi: principale, anche a trascurare i semi di sacrilegio verso la nonna affogati nell¿onda rapinosa della melodia, l¿episodio dei mobili di famiglia ceduti da Marcel all¿appartamento specializzato in «amitiés particulières», il quale ha chiaro suffragio archivistico nei carteggi di quel grande.9 Il romanzo, scritto quasi interamente nel 1937, subito dopo la morte della madre, è scopertamente autobiografico, e il suo protagonista, Gonzalo Pirobutirro, che, nell¿episodio evocato da Contini, stacca dalla parete un ritratto del padre, lo getta a terra e lo calpesta, veste apertamente i panni dell¿autore, rivelandone l¿«ambivalenza della passione filiale»: la madre di Gonzalo viene assassinata e il romanzo, incompiuto, lascia intendere attraverso la manifestazione dei sensi di colpa che attanagliano il figlio l¿ipotesi del matricidio. Gadda Studies», n. 6, 2007.

      9 Gianfranco Contini, Introduzione a Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Einaudi, Torino 1963; poi in Id., Quarant¿anni di amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda, 1934-1988, Einaudi, Torino 1989.

      125 Gianfranco Contini ricordò sul «Corriere della Sera»,10 la tormentata vicenda dell¿edizione di quella introduzione, per la quale si dovette risolvere a mescolare le carte e a rendere meno evidenti i riferimenti all¿innegabile evidenza della matrice autobiografica del testo: «Deferii ai paranoici desiderî, ricorsi a perifrasi non meno grame, placai quella terebrante angoscia, cosa che sola importava. Gadda me ne ringraziò lungamente (9 aprile 1963, ore 14), tornando a parlare di ¿ragioni familiari¿ e di ¿prudenza municipale¿. E conclude: Tale il pedaggio pagato da uno scrittore attanagliato dalla doppia branca della sincerità e della paura.

      La digressione su questa vicenda editoriale non ha certo una grande rilevanza rispetto alla fortuna critica del testo, ma è estremamente indicativa, forse la più indicativa in assoluto, 10 «Corriere della Sera», 3 gennaio 1988, ora in Gianfranco Contini, Quarant¿anni di amicizia, cit.

      126 della suscettibilità di Carlo Emilio Gadda nei confronti del suo romanzo più autobiografico, materno e della centralità della violenza nella sua opera, nel suo universo, nella sua vita di inconsolabile nevrotico.

      Questo romanzo che, fin dal titolo, parla della tragicità del mondo, del fatto che la vita è dolore, come di una conoscenza sicura ¿ alla lettera, cognizione ¿ di una consapevolezza acquisita resta presenza costante nella memoria del lettore che scorra le pagine di diario del ¿73 di Asma.

      Il rapporto tra la governante, Giuseppina, e lo scrittore ormai ottantenne, ma ancora bambino, «¿a criatura» è nuovamente quello di una madre-balia e di un figlio; e Ludovica Ripa di Meana lo tratteggia con intuito e forza tutti femminili: lo stile di quelle pagine è alieno da invenzioni linguistiche barocche, da neologismi, da impennate di tono che sono invece tipici di molti altri suoi testi. Quelle pagine recano come il segno della dimensione testimoniale che l¿autrice rende all¿uomo e alla sua personale tragedia, prima che allo scrittore e alla sua opera. Infatti, il desiderio della narratrice di far recuperare la memoria allo scrittore, il desiderio di fornirgli un¿impossibile riappropriazione delle sue stesse meravigliose parole, passa ancora una volta per il corpo, si fa gesto affettuoso 127 e sconsolato, delicato: il movimento, minimo, di un solo dito nel pudore della sua inevitabile inefficacia: Comincio a leggere le righe, le parole di ogni riga, e vorrei staccarle dal foglio e spingerle una per una col pollice, nella testa che ho di fronte. Le orecchie non stanno ascoltando, gli occhi non stanno vedendo.

      Forse la pelle, la carne, possono assimilare l¿inchiostro delle parole e ingoiarle.

      La «signora Meana», convocata a leggere I Luigi di Francia o il Pasticciaccio o I promessi sposi, offre al proprio lettore ¿ ma ancora una volta, prima che a lui, a se stessa ¿ una serie di istantanee in cui il sentimento della violenza prorompe ancora più veemente grazie al contrasto con una prosa elegiaca, pacata, misurata persino nel ritmo. Ogni giudizio è sospeso e con esso i recuperi dal passato e ragionamenti sul futuro dell¿opera di un classico del Novecento: in queste pagine c¿è solo il presente. A tal punto che a tratti sembra di essere catapultati nel buio dell¿inferno dantesco segnato dall¿«etterno dolore».

      In questa prospettiva vorrei rileggere le pagine di diario del 1973 contenute in Asma come un¿implicita dichiarazione di poetica e come l¿individuazione in Gadda della stella polare 128 della genealogia letteraria di Ludovica Ripa di Meana. La cui modernità sta proprio nella capacità di inserirsi in una tradizione, operando per discontinuità, in modo assai libero e in modo risolutamente individuale, rispondendo a proprie istanze e necessità espressive che derivano da una radicale solitudine.

      Ezio Raimondi, dopo aver inquadrato la centralità delle figure di Carlo Emilio Gadda e di Pier Paolo Pasolini, conclude il suo panorama sulle poetiche della modernità nel Novecento italiano, delineando magistralmente proprio un¿idea pluralistica e complessa della tradizione: In un tempo di anticlassicismo, forse sotto gli auspici di una estetica ellittica del sublime, con la consapevolezza della perdita del centro, la tradizione non significa più un canone ma un luogo di confronto, un dialogo pluralistico e perciò antitotalitario, una norma da inventare di continuo, un valore del tempo e di ciò che è stato nascosto, anche quando lo si nega, nel dopo. «Un segno noi siamo, che nulla indica»: l¿interrogazione impassibile del poeta di Diotima ci accompagna ancora verso la nuova fin de siècle. La cultura barocca rappresentava 129 la vita come un teatro e l¿uomo come un attore, che si toglieva la maschera e conosceva finalmente la propria identità definitiva nell¿atto supremo del morire, alla soglia del non dicibile. Come la letteratura, la tradizione è una maschera, un ruolo necessario ma che nasce da una scelta, forse anche da una volontà di resistenza umile e fiera (come l¿«intelectual decency» di un Orwell?), dall¿impegno verso l¿altro nella temporalità complessa e disordinata della storia. Appunto per questo la sua maschera, anziché nasconderlo, rivela il nostro volto più vero.11 Al contrario, di fronte all¿eredità culturale e letteraria di Gadda negli ultimi decenni del Novecento, la critica si è spesso limitata a segnalare atteggiamenti velleitari e risultati epigonici di scrittori troppo concentrati sulle pagine gaddiane e al tempo stesso dimentichi dell¿uomo che le ha prodotte, della sua personale, personalissima tragedia, del suo insanabile dissidio con il mondo e con l¿altro da sé. Ne sono derivate prose di una complessità troppe volte inutilmente manieristica, sterile. 11 Ezio Raimondi, Le poetiche della modernità in Italia, Garzanti, Milano 1990, pagine 105-106.

      130 Ludovica Ripa di Meana, invece, quasi di puro istinto, distilla in queste poche pagine il suo individuale, e ancora una volta solitario, redde rationem con la presenza letteraria più importante nella sua vita di (futura) scrittrice, e lo fa con quell¿atteggiamento tipicamente femminile che María Zambrano ha chiamato «razón passional»: un¿intelligenza del cuore che la conduce a metabolizzare fonti e modelli letterari, dando vita a una voce tanto singolare e solitaria quanto autentica e profonda.

      In queste pagine la letteratura, che in quanto parola possiamo ricondurre all¿«ordine simbolico del padre» lacaniano, è quasi assente in confronto alla cura, al corpo, ai gesti, alla materialità della vita quotidiana che caratterizza l¿«ordine semiotico (Kristeva) o simbolico (Muraro) della madre». E non potrebbe esserci un crinale più emblematico tra il succedersi di queste due fasi, che la lettura da parte della narratrice delle opere dello scrittore, ormai anziano, come se si trattasse di una favola letta a un bambino, per consolarlo e rassicurarlo di fronte all¿imminenza del buio.

      Però, di queste letture, delle conversazioni letterarie che ne derivano, Ludovica Ripa di Meana racconta a se stessa e poi al lettore poco e niente: ancora una volta è la loro connessione 131 alla vita a prevalere. Infatti, l¿unico spazio riservatogli è quello del pianto di commozione suscitato in Carlo Emilio Gadda dal rapporto con il capolavoro manzoniano; il breve spazio di una domanda e una risposta che accompagnate dall¿affettuoso contatto delle mani (ancora il linguaggio della madre che accompagna quello del padre): A un certo punto, nel testo c¿è un richiamo a Renzo Tramaglino. G* comincia a piangere.

      Interrompo la lettura, poso le mani sulle sue e gli chiedo perché I promessi sposi lo sconvolgano sempre tanto. Scuote la testa e dice: ¿Ma queste sono cose che non si possono spiegare¿.

      Le cose che non si possono spiegare, possono in altro modo essere raccontate. Ed è quello che fa Ludovica Ripa di Meana in queste pagine gaddiane in cui la letteratura sembra essere costantemente messa in disparte: la sua necessaria importanza resa ancor più evidente dalla sua natura di esperienza superflua all¿esistenza.

      In questa prospettiva, infatti, anche il maggior studioso e critico dell¿opera gaddiana è semplicemente «Giancarlo» e la sera della morte dello scrittore, è ritratto, con evidente e potente 132 intento simbolico, mentre cammina lungo un corridoio, come in un chiostro, tenendo «nelle chiare mani un libro aperto che non legge».

      Il parallelo con la vita chiusa, poi, si ripresenta ancora poche righe oltre, quando lo scrittore morto appare «bendato in testa, come una monaca velata»: ultima figura narrativa di una vita non vissuta, bloccata, ritratta.

      Sarebbe obiezione miope avanzare, a chiarimento di queste pagine, l¿oggettività della condizione dello scrittore nella fase terminale della vita. Quello che emerge è la scelta di Ludovica Ripa di Meana, di fronte a uno scrittore già consacrato in vita, di condurre il lettore a ridosso del mistero che ha generato la sua opera. Anche raccontando del proprio incontro con Carlo Emilio Gadda, Ludovica Ripa di Meana, come narratrice, sceglie di vestire i panni dell¿invisibilità: non un riferimento all¿intervista televisiva con cui lei era riuscita a mettere lo scrittore sotto il tiro di una telecamere, trascinandolo fuori dall¿ombra.12 Non un riferimento ad altro di sé che non pertenga alla sfera muliebre della cura: in una sorta di 12 Il libro che raccoglie alcune interviste rilasciate da Carlo Emilio Gadda, tra il 1950 e il 1972, trae il titolo da una sua celebre raccomandazione 133 dimensione complementare con la governante, Giuseppina, cui spetta l¿accudimento corporale di Gadda-bambino, la narratrice si ritrae come una delle persone convocate dallo scrittore ad accudire la memoria di sé presso se stesso, nell¿ultima fase della propria vita, in cui la mente s¿intorpidisce e si comincia lentamente a svanire, se è vero che «si muore quando si smette di ricordare»13 e «il ricordo è l¿unico paradiso da cui non si può essere scacciati».14 Ludovida Ripa di Meana fu interlocutrice di ben altro spessore che non sia solo quello di una semplice lettrice delle pagine gaddiane presso il loro autore; e resta, appunto, la citata intervista televisiva a testimoniarlo. Ma, nel momento fondamentale di raccontare a se stessa il proprio rapporto con questo gigante della letteratura, con la vertigine della sua prosa, con la sua Weltanschauung barocca, la (futura) narratrice sceglie di risalire alle radici della tragedia di quell¿uomo, vede il corpo di Gadda come se fosse il luogo privilegiato della sua scrittura e lo racconta a se stessa, prima che a noi lettori, per definire la all¿intervistatore di turno: «Per favore, mi lasci nell¿ombra». Interviste 1950- 1972, a cura di Claudio Vela, Adelphi, Milano 1993.

      13 Raffaele Crovi, La valle dei cavalieri, Mondadori, Milano 1993.

      14 Jean Paul Richter, Impromptus, in Id., Opere, a cura di Clara Bovero, UTET, Torino 1958.

      134 propria immagine di scrittrice e l¿essenza della propria scrittura.

      In questo senso i brevi stralci di diario del 1973 appaiono una dichiarazione di poetica sub specie narrationis.

      Si richiami ora alla mente la pagina di Ezio Raimondi citata in precedenza e la si accosti a queste righe che Elio Vittorini scrisse per il risvolto del romanzo d¿esordio di Giovanni Testori, Il dio di Roserio,15 uscito nel 1954 all¿interno della collana einaudiana dei «Gettoni»: Le vie del realismo nell¿arte sono sempre state infinite e ritornano ad esserlo. Testori è un altro giovane che, pur al suo primo libro, mostra di voler scavare nella realtà per suo proprio conto. E poco importa se lo faccia, finora, con gusto preminentemente visivo, con una sensualità che ha nell¿occhio il suo uncino principale. Non per nulla egli viene alla narrativa dalla pittura¿ Alla luce si queste parole, appare come ulteriore evidenza quanto la costruzione della tradizione letteraria novecentesca sia profondamente complessa e caratterizzata dall¿intreccio di 15 Giovanni Testori, Il dio di Roserio, Einaudi, Torino 1954.

      135 percorsi differenti. L¿intelligenza politecnica vittoriniana su cui opera, potente, il modello di Carlo Cattaneo,16 per quel che riguarda l¿incrocio e l¿inclusività dei linguaggi artistici, coglie da par suo alcuni elementi caratterizzanti del talento testoriano a cui si possono accostare, a quasi un quarantennio di distanza, quelli, per altre vie simili, di Ludovica Ripa di Meana: lo «scavare nella realtà per suo proprio conto» e, soprattutto, «il gusto preminentemente visivo» segnato da una «sensualità che ha nell¿occhio il suo uncino principale». Che a monte di questa attitudine di Testori ci sia il magistero di Roberto Longhi, l¿altro grande campione del barocco novecentesco italiano,17 di cui ho trattato a proposito del libro di Ludovica Ripa di Meana con Gianfranco Contini nel capitolo precedente, è l¿ennesima riprova del ricco e multiforme intreccio di questa tradizione all¿interno della letteratura italiana del secolo scorso.

      Qui si situa il percorso individuale e solitario dei testi di Ludovica Ripa di Meana, la cui marginalità non equivale a una distanza o a una diminuzione, ma a una differenza e a 16 Si veda su questo argomento l¿analisi ricca e articolata di Giuseppe Lupo, Vittorini politecnico, Franco Angeli, Milano 2011.

      17 Su questo tracciato novecentesco è fondamentale la lezione di Ezio Raimondi: Barocco moderno. Roberto Longhi e Carlo Emilio Gadda, Bruno Mondadori, Milano 2003.

      136 un¿eccentricità, di cui mi riservo di parlare nel capitolo decimo, intitolato «Soggetto».

      Qui vale accennare solo ad alcuni elementi del rapporto tra i romanzi, i monologhi e le tragedie di Ludovica Ripa di Meana con il dettato gaddiano.

      Innanzi tutto il fatto che nei testi di questa scrittrice, proprio come in quelli di Gadda, la parola è sempre metonimica di una realtà umana e allo stesso tempo rimanda ad altre realtà umane. Bachtinianamente polifonica e dialogica, essa è frutto della natura relazionale del soggetto che la esprime, autrice, voce narrante o personaggio che sia, senza distinzione, anche se risolutamente e radicalmente solitario. O addirittura, a maggior ragione, proprio in virtù della libertà che deriva da questa sua posizione eccentrica.

      Prendendo a prestito dal Jean Genet di L¿atelier d¿Alberto Giacometti: Essendo quello che sono, e senza riserve, la mia solitudine conosce la vostra.18 18 Jean Genet, L¿atelier d¿Alberto Giacometti; photographies de Ernest Scheidegger, Arbalete, Lyon 1963.

      137 Così l¿uso del dialetto, soprattutto romano, ma non solo, evoca molto più che la semplice mimesi del parlato quotidiano, attento com¿è ai registri legati all¿appartenenza sociale e al livello culturale, ma anche a tutte le possibili funzioni ironiche a cui spesso l¿autrice lo induce. Non da ultimo, infine, esso riaffiora persino nell¿italiano, a tratti, come traccia carsica di quella «specie di orecchio interiore, pronto a cogliere tacite melodie»19 di cui parlava Robert Louis Stevenson a proposito degli elementi sonori del linguaggio che guidano certe scelte di uno scrittore.

      Cesare Segre indica come una delle peculiarità più rilevanti dello stile di Ludovica Ripa di Meana, «un¿ardita produttività neologistica: diciamo tra Gadda e Pizzuto»20, indulgendo forse in un eccesso di ¿continismo¿. La natura del neologismo di Ludovica Ripa di Meana, infatti, è semmai di matrice dantesca piuttosto che gaddiana, puntando al sincretismo piuttosto che alla proliferazione. Se, infatti, si possono ravvisare molte affinità tra la Weltanschauung Carlo 19 Robert Louis Stevenson, L¿arte della scrittura, a cura di Francesca Frigerio, Mattioli 1885, Fidenza 2009.

      20 Cesare Segre, La merciaia e la contessa unite dal peso degli anni, in «Corriere della Sera», 27 novembre 1994.

      138 Emilio Gadda e quella di Ludovica Ripa di Meana, è un¿evidenza incontrovertibile che la prima ha nutrito la prosa barocca per antomasia del Novecento italiano, la seconda invece ha si è espressa in forme visionarie che possono essere accostate a quelle dell¿espressionismo di derivazione pittorica di Giovanni Testori.

      I primi due romanzi di Ludovica Ripa di Meana, La sorella dell¿Ave e Rosabianca e la contessa, hanno atmosfere e ambientazioni romane ¿ e il secondo, addirittura, specificamente condominiale ¿ che sono strettamente parenti con quelle del Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda.

      Molti elementi si possono annoverare per stabilire con maggior precisione il rapporto di familiarità dei testi di Ludovica Ripa di Meana con quelli di Carlo Emilio Gadda; ma non è attraverso la cartografia dei tracciati intertestuali che ci si può accostare alla comprensione dell¿importanza dello scrittore lombardo nella genealogia letteraria della scrittrice romana.

      Non è all¿interno dei parametri della simbologia dell¿ordine paterno che si deve indagare, bensì in quelli di quello materno.

      In questo caso, il genere svolge un ruolo fondamentale e, forse anche per questo elemento, la posizione di Ludovica Ripa di 139 Meana all¿interno della tradizione gaddiana del secondo Novecento italiano risulta ulteriormente eccentrica.

      La chiusura della sequenza gaddiana di Asma è rivelatrice della strada tutta femminile, altra, da intraprendere: quella narrativa per l¿autrice, quella critica per noi lettori. Ricomposta la salma, «ora che la benda non serve più, basta una carezza contropelo sui capelli, e tornano su a spazzola. Ecco.

      Finalmente giace lo hidalgo, il nonamato»; manca solo l¿ultimo dettaglio della vestizione, prima di salutarsi per riconoscersi in un¿attimo, per sempre, e quindi uscire. La narratrice se lo racconta e ce lo racconta come contraddistinto da una casualità o forse da una facilità dettata dall¿istinto o forse invece come un segno felice e semplice nella sua ritualità di gesto finale che precede l¿uscita di casa, dalla vita ¿ cioè l¿entrata in un altrove, nel mondo, nella scrittura letteraria: Il nodo alla cravatta, questa volta, mi è riuscito subito.

      CAPITOLO QUINTO La poetica della cantastorie Prima ancora che poetessa o narratrice o drammaturga, Ludovica Ripa di Meana ama definirsi cantastorie. E in questa parola è racchiusa, mirabilmente, l¿intera poetica di questa scrittrice, del suo modo d¿intendere e praticare la letteratura.

      Tradizionalmente, il cantastorie era colui che si spostava nelle piazze e raccontava con il canto un fatto antico, magari rielaborato in veste nuova, oppure un fatto recente, desunto da avvenimenti contemporanei entrati da poco a far parte del bagaglio culturale collettivo della comunità. Si tratta di una figura della letteratura orale e della cultura popolare.

      Mentre appare quasi paradossale e deliberatamente provocatorio il pensiero di Ludovica Ripa di Meana di proporsi come autrice popolare scrivendo in versi, specie nell¿attuale contesto letterario, risulta invece straordinariamente coerente e 142 quasi naturale la scelta della scrittura in versi rispetto a una poetica da cantastorie e rispetto all¿evoluzione che la sua scrittura ha avuto, nel passaggio dal romanzo al teatro.

      Infatti la peculiarità prevalente del cantastorie non è tanto la dimensione autoriale e creativa: le storie che va narrando le inventa ¿ letteralmente, invenire vale trovare ¿ nel passato oppure nel presente, comunque nel già noto, nell¿esistente. Il suo compito è quello di rendere quelle storie piacevoli, interessanti, sempre nuove agli occhi e agli orecchi del pubblico. Farle vivere nel desiderio, in un gesto seduttivo, che nasconde il mestiere mentre sembra affidarsi all¿istinto, che evoca costantemente un mistero ancestrale.

      È il canto che precede la poesia, come diceva Jorge Luis Borges a proposito della terzina dantesca, la cui forza, la cui potenza fonetica, prima ancora che si riesca a comprendere il senso delle parole che la costituiscono, è data dal fatto di ricordarci, attraverso il suo ritmo e il suo sistema di rime, che la poesia in origine era canto. In principio era musica.1 C¿è in tutto questo un retaggio ancestrale, qualcosa che rimanda a un tempo mitico e pertiene all¿indagine sul mistero della natura umana, come rileva Emanuele Severino, in questo 143 suo ragionamento che, infatti, ricalca, per certi versi, gli stilemi di un racconto orale: Il grido. Sta all¿inizio della vita dell¿uomo sulla terra. Il grido di caccia, di guerra, di amore, di terrore, di gioia, di dolore, di morte. Ma anche gli animali gridano; e per l¿uomo primitivo grida anche il vento e la terra, la nube e il mare, l¿albero e la pietra, il fiume. Ma solo l¿uomo si raccoglie intorno al grido, in assenza degli eventi che l¿hanno provocato. Al grido sono legati gli aspetti decisivi dell¿esistenza e nella rievocazione del grido le più antiche comunità umane non solo scorgono la trama che le forma, ma annodano stabilmente i fili della trama, cioè si stabiliscono e confermano nel loro essere comunità umane. L¿intera vita dei popoli più antichi si raccoglie intorno alla rievocazione del grido, cioè attorno al canto; e il canto avvolge i viventi ben più strettamente del calore dei fuochi attorno a cui essi stanno.»2 Il canto come rievocazione del grido ne perpetua la dimensione performativa, per cui anche la parola scritta diventa 1 Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi, Franco Maria Ricci, Milano 1985.

      144 suono, nasce già per essere detta, reclamando la necessità della voce di dar corpo al verso. Per non perdere l¿emozione di quell¿attimo originario, disperdendolo in una narrazione, come ha avuto modo di dire, in altro contesto, il pittore inglese Francis Bacon: Ho cominciato con il dipingere l¿orrore, le corride o le crocifissioni, ma era ancora troppo drammatico. Ciò che conta, è dipingere il grido.3 Ancora una volta l¿immagine della cantastorie come allegoria della poetica di Ludovica Ripa di Meana risulta efficacissima: e ritornano le osservazioni che si facevano nel capitolo iniziale sul senso della lettura che si chiarisce nel gesto, nella sua esecuzione, nel suo prendere corpo, attraverso la voce.

      La musica canta ma non ragiona, illustra descrive racconta, ma sa di non poter dar conto in modo logico di una verità. Accetta la propria natura misteriosa. E il cantastorie, prima ancora che poeta, punta tutto sul piacere del testo, 2 Emanuele Severino, Il parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985, pagina 41.

      3 Francis Bacon, La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester, Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma 1991, pagina 180.

      145 sapendo che nella sua esecuzione, nel gesto del narrare sta la propria verità, prima ancora che nel complesso dei significati delle parole che dice. La stessa operazione narrativa è misteriosa, affonda le radici nell¿istinto personale, nel groviglio, nello gliuommero (per usare ancora una parola emblematica gaddiana) dei nostri sentimenti e della nostra memoria, personali e collettivi.

      Friedrich Nietzsche, ragionando del rapporto tra parola e musica nella tragedia, scriveva: La musica è la vera idea del mondo, il dramma solo un riflesso di quest¿idea, un fantasma isolato di essa.

      [¿] Per quanto muoviamo la figura nel mondo più visibile, la vivifichiamo e la illuminiamo dal di dentro, essa rimarrà sempre solo l¿apparenza, da cui non c¿è nessun ponte che conduca alla realtà vera, al cuore del mondo. Ma è da questo cuore che parla la musica.4 Narrare in versi, poi, equivale anche a dare nobiltà alla materia vile, restituendole la forza dell¿origine, sottraendola 4 Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1973, pp.

      143-144.

      146 alla sua apparente quotidianità, provando a riannodare i fili che la uniscono al mistero.

      L¿endecasillabo con le sue scansioni frantuma il testo uccidendone la banalità (la naturale ovvietà) e lucidandone i vari pezzi a un antico splendore scrive Angelo Guglielmi.5 E non è un caso, dunque, che i romanzi e le opere teatrali di Ludovica Ripa di Meana abbiano una struttura quasi sempre nascosta, come occultata. Essi hanno una struttura che non appare in quanto tale. Anche dove il disegno è più evidente (e penso alla circolarità della tragedia Kouros) in realtà la struttura, l¿impalcatura della vicenda narrata, scompare nella prevalenza di piani temporali che si alternano, nel gioco polifonico delle voci e dei punti di vista che raccontano la storia, o meglio, le storie dei personaggi.

      L¿impressione generale è che questi testi siano nati da un corpo a corpo con le storie che si fanno romanzo o tragedia, con persone e caratteri, con psicologie e discorsi (Foucault) che si 5 Angelo Guglielmi, Ripa di Meana, ballate amare e squisite, in «l¿Unità», 9 settembre 2003.

      147 fanno personaggi. Come se a prevalere sulla dimensione letteraria (la struttura dell¿opera, il genere a cui si ascrive, i registri a cui si attiene) sia costantemente l¿irregolarità misteriosa della vita, il suo demone tragico.

      D¿altro canto, in quel testo rivelatore che è Asma, la necessità di raccontare storie viene equiparata a quella di respirare, la prima non essendo meno vitale dell¿altra.

      E quanto il binomio raccontare - respirare sia centrale nella definizione della propria identità è sottolineato dall¿invocazione a Dio che segue subito dopo: Son piena di storie. Da raccontare. Ma come, ma come se non mi esce più niente da questa gola? Ti prego, mano testimone, irremovibile come impugni la ringhiera per far resistere il coraggio, fammi un buco da qualche parte nel collo, che forse non ci abbiamo pensato e la salvezza viene da lì, magari c¿è una bolla d¿aria, sì, di aria di aria, che blocca tutto, come quando lo stantuffo non riesce a scivolare nel corpo della siringa. Basta, basta, ti prego, Dio. Di te non posso parlare, mi attraversi come una freccia e già non so più dove sei. Mi basta che sei. Che io sono che tu sei.6 6 Asma, cit., pagine 83-84.

      148 Ben al di là del genere letterario e ben prima della scrittura per il teatro, fin dal primo verso del primo romanzo («Misterïosa come Peter Pan») s¿affaccia nell¿universo creativo di Ludovica Ripa di Meana l¿idea del tragico e della sua ineluttabilità strettamento legati al mistero della vita e alla necessità di dirlo, cantarlo, scriverlo per la scena.

      Partendo dalla considerazione che la lingua materna in cui impariamo a parlare è di fatto la lingua del padre, il pensiero della differenza ha messo in rilievo come sia il corpo, più ancora del pensiero, a colmare questa lacuna della lingua.

      Come hanno dimostrato per prime Luce Irigaray7 e Julia Kristeva8 l¿ordine simbolico paterno teorizzato da Jacques Lacan, quello cioè costituito dal linguaggio e destinato a subentrare a quello materno iniziale, non deve soppiantare 7 La critica al pensiero di Jacques Lacan, che segnò il distacco di Luce Irigaray dal dipartimento di ricerca da lui condotto, è elaborata nel saggio fondativo per il pensiero della differenza sessuale, Speculum. L¿altra donna, Feltrinelli, Milano 1975.

      8 Julia Kristeva, Eretica dell¿amore, La Rosa editrice, Torino 1979.

      149 l¿ordine simbolico della madre, quell¿insieme cioè di segni con cui la madre si mette in contatto con il figlio fin dalla nascita.9 La dimensione della cantastorie, ed in particolare la scelta della scrittura in versi, rafforzata anche dall¿affiorare, in più di un testo di Ludovica Ripa di Meana, di filastrocche o giochi di parole tipici della più tenera infanzia, attira l¿attenzione sulla materialità del significante parlato, sulla vocalizzazione del suono, che è già un tentativo psichico di ricollocare e ricatturare un corpo materno perduto. La poesia, infatti, sfrutta le possibilità più materiali della lingua.10 La materialità del significante è, dunque, la ripetizione dislocata della materialità del corpo materno perduto.

      In tal senso, la materialità si costituisce nella ripetibilità, e attraverso di essa.11 Il corpo materno, in questa prospettiva, risulta come il paradigma o l¿immagine di ogni referente successivo. Come 9 Questo tema è stato sistematizzato e sviluppato nel testo fondamentale di Luisa Muraro, L¿ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991.

      10 Julia Kristeva, Desire in language. A semiotic Approach to Literature and Art, a cura di Leon Rondiez, Columbia University Press, New York 1980, pagine 134-136.

      11 Judith Butler, Corpi che parlano, cit., pagina 63.

      150 sostiene Julia Kristeva, la materialità della lingua deriva dalla materialità delle relazioni corporee infantili. La lingua, infatti, si rivela come un infinito dislocamento della jouissance identificata, in maniera fantasmatica, con il corpo materno e ogni tentativo di significare codifica e ripete questa perdita.

      Questo in antitesi alla formulazione lacaniana dello stadio dello specchio, in cui la relazione narcisistica è considerata primaria, e sostituisce il corpo materno in quanto rito di identificazione primario.

      Vale forse la pena precisare, a questo punto, che un ruolo non indifferente nella scelta di Ludovica Ripa di Meana di scrivere in versi l¿ha senz¿altro giocato l¿avventura dantesca del marito, Vittorio Sermonti. A lui si deve un¿ineguagliabile lettura integrale del poema dantesco, realizzata per la radio. Un canto al giorno, preceduto da un¿introduzione esplicativa e narrativa, tale da mettere l¿ascoltatore, il pubblico, nelle condizioni di maggior comprensione possibile della poesia dantesca. La supervisione di queste pagine di altissima divulgazione fu 151 affidata al maggior dantista e filologo del secondo Novecento italiano: Gianfranco Contini.12 La conferma che quella formula originale, quello stile senza dubbio ardito, fosse la strada più autentica che Ludovica Ripa di Meana dovesse intraprendere e percorrere sì è avuta quasi un decennio dopo l¿esordio, nel passaggio dalla narrativa al teatro. Quasi tutti i testi composti da Ludovica Ripa di Meana per il teatro sono stati messi in scena, a riprova che questa scrittura in versi risulta moderna e praticabile, senza apparire, come sarebbe lecito sospettare, un¿operazione letteraria ferma sulla pagina.

      Infatti, la messa in scena di Ciò esula13 a opera dell¿attrice Elisa-betta Pozzi, che interpreta una «povera crista sui 12 Quest¿avventura radiofonica ha poi figliato tre volumi, uno per cantica, che hanno avuto nel corso degli anni a seguire molte edizioni. Il primo L¿inferno di Dante di Vittorio Sermonti, con la supervisione di Gianfranco Contini, fu pubblicato da Rizzoli nel 1988. Vittorio Sermonti ha presentato questa sua lettura integrale del poema, un canto al giorno, a Ravenna inizialmente, poi a Roma, a Milano, a Firenze e a Bologna, con un successo di pubblico impressionante, settimana dopo settimana. A lui si deve il rilancio dell¿attenzione popolare sia nei confronti del poema dantesco sia in quelli della cosiddetta lettura dei classici in pubblico nel nostro Paese.

      13 Elisabetta Pozzi in Ciò esula di Ludovica Ripa di Meana (cd audio dello spettacolo, musica di Franco Piccolo), Luca Sossella editore, Roma 2003.

      Di seguito il testo in quarta di copertina: «Una donna depone in Corte d¿Assise al processo contro il marito, il quale, per vendicarsi di lei che lo 152 trentacinque» che parla in romanesco più che in italiano, durante una depo-sizione in tribunale, è la controprova ¿ ammesso che ce ne fosse bisogno ¿ che i versi di Ludovica aveva lasciato, ha ammazzato il loro unico figlio, di cinque anni. La donna si chiama Luciana, il marito Mario, il bambino Alessio.

      Il monologo in endecasillabi di Luciana tenta di ricostruire l¿antefatto: vicende normali, di una famiglia normale, con lavori normali, bilancio normale, in una normale periferia urbana non particolarmente povera o brutta o degradata. Ed è tragedia. Perché? Cosa c¿è dietro questo tipo di delitti snaturati? Prima, cosa c¿è? Si fa presto a dire pazzia¿ Incalzata dalle domande (che non si sentono) del Presidente, del Pubblico Ministero, degli avvocati, Luciana rivela, più che a loro al proprio stupore, l¿indicibile: il patto erotico funesto che la ha legata a Mario fino a poco prima del delitto, quando, sfinita dagli aborti, per sopravvivere ha preso su il figlio ed è tornata a stare da sua madre. Nato e morto in ragione di un congiungimento ¿ e di una sottrazione ¿ carnali, il figlio per entrambi i genitori non è mai esistito in sé; né l¿uno né l¿altra ha mai percepito il segno, lo sviluppo, la vita della sua separata identità. Messo al mondo, tolto dal mondo in forza d¿una passione cieca, inappellabile, arcana tra corpi di sesso opposto, il figlio bambino diventa per sua madre una persona intera, un ¿altro da sé¿, nel punto stesso della sua mancanza (prima sottratto, poi ucciso dal padre): diventa compiutamente, insostituibilmente Alessio nel suo ufficio di vittima. Nasce dalla sua morte. Di questo solo ora Luciana prende velatamente coscienza sgranando ragioni opache e folgoranti irragioni, ossessioni confuse e percezioni lancinanti, in un suo idioletto maldestro, ora ridicolo, ora tremendo di esattezza, cui gli endecasillabi imprimono la cantilena dall¿inconsolabilità».

      Il testo di Ciò esula era stato pubblicato in precedenza all¿interno della raccolta di quattro monologhi Teodia, Nino Aragno editore, Torino 2003.

      153 Ripa di Meana avevano e hanno una forza vitale e rappresentativa di straordinaria efficacia e autenticità.

      La messa in scena di questo monologo mi ricorda una pagina di Roland Barthes, che riproduco per intero, in semplice giustapposizione proprio perché non tutto coincide e si adatta nei due testi che ho scelto di affiancare, ma molte sono le consonanze e le suggestioni che li apparentano.

      Se fosse possibile immaginare un¿estetica del piacere testuale, bisognerebbe includervi: la scrittura ad alta voce. Questa scrittura vocale (che non è affatto la parola), non si pratica mai, ma è senza dubbio questa che Artaud raccomandava e Sollers richiede.

      Parliamone come se esistesse.

      Nell¿antichità, la retorica comprendeva una parte dimenticata, censurata dai commentatori classici: l¿actio, insieme di ricette atte a permettere l¿esternamento corporeo del discorso: si trattava di un teatro dell¿espressione, l¿oratore-attore ¿esprimendo¿ la sua indignazione, la sua compassione, eccetera. La scrittura ad alta voce, invece, non è espressiva; lascia l¿espressione al feno-testo, al codice regolare della comunicazione; per parte sua appartiene al geno-testo, alla significanza; è portata non dalle inflessioni 154 drammatiche, le intonazioni maligne, gli accenti compiacenti, ma dalla grana della voce, che è un misto erotico di timbro e di linguaggio, e può quindi essere anch¿essa, al pari della dizione, la materia di un¿arte: l¿arte di condurre il proprio corpo (donde la sua importanza nei teatri estremorientali). Tenendo conto dei suoni della lingua, la scrittura ad alta voce non è fonologica ma fonetica; il suo obiettivo non è la chiarezza dei messaggi, il teatro delle emozioni; ciò ch¿essa cerca (in una prospettiva di godimento), sono gli incidenti pulsionali, è il linguaggio tappezzato di pelle, un testo in cui si possa sentire la grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda: l¿articolazione del corpo, della lingua, non quella del senso, del linguaggio. Certa arte della melodia può dare un¿idea di questa scrittura vocale; ma poiché la melodia è morta, è forse al cinema, oggi, che si potrebbe trovare più facilmente. Basta infatti che il cinema prenda molto da vicino il suono della parola (è in fondo la definizione generalizzata della ¿grana¿ della scrittura) e faccia sentire nella loro materialità, nella loro sensualità, il respiro, l¿increspato, la polpa delle labbra, tutta una presenza del muso umano (che la voce, la scrittura, siano fresche, morbide, lubrificate, 155 finemente granulose e vibranti come il muso di un animale), perché riesca a trascinare lontanissimo il senso e a gettare, per così dire, il corpo anonimo dell¿attore dentro al mio orecchio: qualcosa granula, crepita, accarezza, raspa, taglia: gioisce.14 14 Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1999, pagine 126-127.

      CAPITOLO SESTO Forma e sostanza della tragedia greca classica «La tragedia è un inganno, in cui è più saggio chi si lascia ingannare», diceva il sofista Gorgia, accentuando i termini del paradosso interno al mondo del teatro greco classico, la cui realtà ¿stilizzata¿, fatta di leggi spaziali e temporali autonome, logiche e psicologie inderogabili, non era meno concreta di quella che gli spettatori avevano lasciato al di fuori delle gradinate.

      Nell¿universo tragico vita e spettacolo si equivalgono in una dimensione realistica fortissima che sovrappone il piano biografico dello spettatore a quello letterario del testo sulla scena. Caso esemplare quello del tragico Frinico, che nel 476 a.C. fece rappresentare la Presa di Mileto, rievocando l¿episodio storico della sconfitta subita a opera dei Persiani: lo sgomento 158 del pubblico fu enorme, Erodoto parla di un «dolore esagerato» da parte degli Ateniesi: Tutto il teatro scoppiò in lacrime, al poeta fu inflitta una multa di mille dracme per aver rievocato le sciagure della propria stirpe, e fu proibito a chiunque di rappresentare in futuro quel dramma.1 La realtà della scena era vissuta con tale partecipazione da non essere distinta da quella della quotidianità: il rapporto fra l¿eroe e il coro riproduceva esattamente quello fra l¿individuo e la comunità. La dimensione politica della tragedia si radica proprio in questa particolare adesione tra arte e vita, che trova nell¿Atene del V secolo il contesto ideale alla propria realizzazione. La società ateniese esprimeva infatti un¿idea di collettività compatta, in cui il grado di partecipazione e di responsabilità verso la cosa pubblica erano tra i più elevati di sempre.

      Su questa lettura tradizionale, viziata da una certa rigidità ideologica, s¿innesta con esiti interessanti e raffinate precisazioni, l¿analisi di Nicole Loraux, profonda conoscitrice 1 Erodoto, Storie, VI, 18-21.

      159 del mondo greco e straordinaria interprete del famoso saggio nietzschiano sulla nascita della tragedia, che si spinge oltre: Gli spettatori della tragedia greca erano sollecitati individualmente o collettivamente, non tanto come membri della collettività politica quanto come appartenenti a quella collettività per nulla politica che è il genere umano o, per dargli il suo nome tragico, la ¿stirpe dei mortali¿. [¿] Poiché questa è appunto, in definitiva, l¿ultima parola di ciò che canta, allo spettatore più che al cittadino, la voce addolorata della tragedia.2 Il legame che unisce l¿idea del tragico alla definizione che l¿uomo ha di sé, alla consapevolezza che il cittadino ha di sé e della polis, dell¿uomo e del mondo, è indissolubile.

      E il nucleo fondante del tragico consiste proprio nel conflitto tra libertà e necessità; di più, nell¿insanabilità di questo contrasto. Come diceva Goethe: 2 Nicole Loraux, La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca, Einaudi, Torino 2001, pp. 152 e 159.

      160 Ogni tragicità è fondata su un conflitto inconciliabile.

      Se interviene o diventa possibile una conciliazione, il tragico scompare.3 Questa breve incursione, forse anche un po¿ sommaria, nell¿universo della tragedia classica, acquisisce senso ai fini dell¿interpretazione dell¿opera di Ludovica Ripa di Meana non solo e non tanto a partire dalla composizione della tragedia Kouros, ma anche e soprattutto perché, fin dai primi romanzi, è possibile leggere tra i versi di questa scrittrice molte delle istanze tipiche del genere tragico a cui si è accennato sopra.

      Mutate tutte le cose che posso e devono essere mutate, la sintonia di Ludovica Ripa di Meana con l¿universo del tragico, ben prima della scrittura di una vera e propria tragedia, si realizza nella sua disposizione autoriale alla testimonianza, nell¿istanza di realismo che è fortissima, fin dal suo esordio, in ogni suo testo; si realizza in quella sorta di fedeltà alle cose e alle persone, alla storia verrebbe da dire (ma sempre con la minuscola), che questa scrittrice fa coincidere con il proprio sguardo, con la propria voce, con la propria scrittura. 3 Johann Peter Eckermann, Come si diventa poeti. Il libro verità dell¿autore dei colloqui con Goethe, E&A, Roma 1990.

      161 Nel romanzo d¿esordio, La sorella dell¿Ave,4 c¿è un passaggio significativo, rivelatore della definizione del ruolo 4 Ludovica Ripa di Meana, La sorella dell¿Ave, Camunia, Milano 1992. Di seguito il testo in quarta di copertina: «Non abbiamo mai visto una stella com¿è. Possiamo vedere soltanto com¿era. Questo romanzo racconta la disperata contemplazione di una stella. In versi.

      Una donna perde le tracce di un¿altra donna. La ama: è sua sorella.

      Bambine, dormivano nella stessa stanza. Rovista nei ricordi più lontani una premonizione della sua scomparsa. I ricordi affluiscono a sciame, minuti e molesti (nonni famosi e ricchi; una madre travolgente, detestata e adorata; un padre aristocratico e soldato, assorto nell¿assaporare sconfitte; i rituali d¿una famiglia della grande borghesia nella Roma degli anni Trenta; un collegio di suore; la guerra e la resistenza esplorate da due bambine; la cognizione della povertà¿). Ma l¿indagine fallisce: la donna si accorge di non aver mai conosciuto la sua strana sorella. Allora la investe con il risentimento e la spossatezza d¿una ostinata predilezione; le rinfaccia ¿ a lei, velata ormai da una lontananza impenetrabile ¿ manierismi ideologici, estorsioni affettive, l¿esibizione di segreti (scorrono sullo schermo della memoria le pratiche d¿una ostentata dedizione ai ¿poveri¿ e ai ¿diversi¿, cupe coppie nella Milano degli anni Settanta, bamboleggiamenti col terrorismo, sogni, ambiguità che, svelandosi, si cancellano¿). Tanta foga istruttoria, però, alimentata da tanto sarcasmo e tanto smarrimento di pietà, non fa che ricondurre la donna che scrive al nocciolo rovente dell¿ignoto. La ripetizione rituale ed automatica di un interrogatorio infantile a luci spente salda, tuttavia, le due lontananze (la lontananza nello spazio e la lontananza nel tempo) in un¿unica dolcezza inconsolabile. Difficile identificare i modelli della scrittura a rischio di Ludovica Ripa di Meana, orecchiabile e aspra, languida e mercuriale, poi, d¿improvviso, esosamente prosaica. Le affinità con altri ¿romanzi in versi¿ ¿ Attilio Bertolucci, per non dire del sublime Puskin ¿ sembrano del tutto esterne. Sulla superficie diseguale dei versi di La sorella dell¿Ave galleggiano bucce di melodramma, barbagli di Eliot e della Cvetaeva, 162 che la voce narrante sta acquisendo presso la consapevolezza dell¿autrice. Un¿acquisizione che avviene man mano che il romanzo procede, come se si trattasse della progressiva conquista di uno statuto, quello del narratore come personaggio (ma anche e soprattutto, al di fuori del testo, come persona che parla di sé parlando dell¿altro), che inizialmente l¿autrice quasi non si attribuisce nemmeno. Il dialogo è tra le due sorelle: Facciamo il punto, dài, per una volta.

      Di che? Di te.

      Ma no! prima di te.

      Di me? che c¿entra me? sto raccontando.

      Guarda, tu che racconti, che tu ti racconti e sogni.5 L¿intera prima parte di questo romanzo d¿esordio costituisce di fatto una sorta di presa di coscienza della vocazione a narrare, una specie di gestazione della scrittura, che trova la schegge di Gadda e addirittura di Dante¿ Ma l¿identità di questo libro, la sua definitiva leggerezza è nella passione, nell¿abnegazione, nella follia del racconto».

      5 Ludovica Ripa di Meana, La sorella dell¿Ave, cit., p. 101.

      163 propria origine nell¿istinto di osservatrice e nella curiosità di Ludovica bambina, non solo per la «misterïosa» sorella, ma anche per la madre e il padre nei loro atteggiamenti non sempre comprensibili agli occhi dei figli, per tutte le figure domestiche che lavorano in casa, per i vicini, per l¿universo del collegio delle suore, per la situazione generale generata dalla guerra. E in quest¿intento, l¿autrice riesce meravigliosamente a rendere il senso di scoperta, di costante resa momentanea della bambina di fronte all¿impossibilità di conoscere fino in fondo le cose.

      Attitudine che, in quel contesto, è dovuta all¿età, ma che si è rivelata, in senso esistenziale ben più ampio e generale, un¿acquisizione certa della maturità, non solo personale ma anche e soprattutto artistica e letteraria di Ludovica Ripa di Meana.

      Forse proprio in questa consonanza con l¿inconciliabilità del conflitto tra il nostro desiderio di conoscenza, vissuto come impulso irrefrenabile, e la nostra impossibilità di arrivare al nocciolo del mistero, in questa colpa fatale, consiste la sintonia di Ludovica Ripa di Meana con l¿universo del tragico, ben al di là dei singoli rimandi letterari.

      CAPITOLO SETTIMO Titoli «Sia sul piano scientifico sia su quello morale, venni dunque gradualmente avvicinandomi a quella verità, la cui parziale scoperta m¿ha poi condotto a un così tremendo naufragio: l¿uomo non è veracemente uno, ma veracemente due.» ROBERT LOUIS STEVENSON, Appunti e studi su Jackill Che il tema dell¿altro da sé, ovvero dell¿identità che si declina in una dimensione relazionale, attraversi l¿opera di Ludovica Ripa di Meana è piuttosto evidente anche solo a una prima scorsa dei titoli dei suoi romanzi e dei suoi testi teatrali.

      Il titolo del primo romanzo, La sorella dell¿Ave,1 proietta immediatamente il lettore in un rapporto speculare, qui rafforzato dal fatto che l¿altra parte del binomio è costituita anch¿essa da una femmina, la sorella del Padre, voce narrante e alter ego dell¿autrice. La designazione delle due sorelle che, bambine, dividono la stanza, avviene in base al fatto che una dorme nel 1 Si veda la nota 21 a pagina 30.

      166 letto sopra la cui testiera sono appesi i quadretti di un¿allegoria dell¿Ave Maria e l¿altra del Padre Nostro.

      Rosabianca e la contessa2 dichiara apertamente che a essere protagoniste del romanzo sono due donne: una fa la merciaia, 2 Ludovica Ripa di Meana, Rosa bianca e la contessa, Camunia, Milano 1994.

      Di seguito il testo in quarta di copertina: «Scrivere in versi il primo romanzo può tradire una certa alterigia. Scrivere in versi anche il secondo è un atto di impudente umiltà. È quanto confessare: ¿Sarà ridicolo, ma non so scrivere in altro modo¿¿. I competenti, che hanno salutato La sorella dell¿Ave di Ludovica Ripa di Meana come ¿un evento letterario assoluto¿, ora dovranno fare i conti con una vocazione narrativa cocciuta, incorreggibile, unica.

      Al centro di Roma, sulla metà degli anni Settanta, una anziana contessa nubile ¿ ossessionata da mene ereditarie e dalla nostalgia di una colpa irripetibile ¿ ed una merciaia vedova ¿ infilzata dal rimorso d¿un crimine segreto commesso ¿per maternezza e per non farla lunga¿ ¿ si impigliano in una scontrosa intimità fatta di requisitorie sventate e di oculatissime omissioni, mutue insofferenze e tenerezze mute; poi, d¿improvviso, quasi ai giorni nostri, l¿intimità si accende, crepita, è già consumata; e le due vite tornano a divaricarsi, le due donne ad affacciarsi sulla quotidiana eternità della solitudine: la contessa illanguidita da un disincanto estremo e senza remissione, la merciaia accecata (letteralmente) dall¿orrore del mondo. Questo, più o meno, l¿ordito di Rosabianca e la contessa. Ma la trama è quasi inestricabile: la contessa tira in ballo cognate aborrite, una losca coppia di portinai, una bambina arcana ed abietta, un¿accolita di poeti cosmopoliti, fratelli inconfessabili, stormi di storni, il mare; Rosabianca convoca due figlie sventurate a vario titolo, un nipotino bigio, un marito buonanima, un lubrico coinquilino in commercio con l¿oltretomba, Barbarossa imperatore, un colombaccio¿ e la trama si dipana per coincidenze gratuite, agguati mnemonici, analogie percettive, allitterazioni, cataloghi.

      167 ha avuto una vita apparentemente ¿normale¿ (se è lecito usare quest¿aggettivo per pura necessità di semplificazione) e viene evocata attraverso il proprio nome di battesimo; l¿altra, nobildonna intenta per tutta la vita al sacrificio volto alla conservazione del patrimonio di famiglia, è nominata invece attraverso il proprio status sociale. Due destini di solitudine, fin dal titolo, messi in parallelo.

      Marzio e Marta3 rimanda ancora a un confronto a due, questa volta tra un padre e una figlia, i due poli intorno ai quali L¿autrice, che delle due donne non sa più di quello che sanno loro, dà corda ai loro sproloqui, consente al gergo con cui si raccontano i propri guai ¿ le proprie buone (o pessime) ragioni, le proprie bugie ¿ di dilatarsi in una doppia epopea, esilarante e tragica.

      Prestando ¿ad ogni singola cosa, del visibile e dell¿invisibile, l¿identica misura d¿attenzione¿, Ludovica Ripa di Meana lascia trapelare sotto la ragnatela della chiacchiera la traccia rossa di due destini di donna; sotto la godibilità sfrontata e proditoria degli stili il chiodo della disperazione, la lama della carità, la cadenza travolgente e inappellabile della poesia».

      3 Ludovica Ripa di Meana, Marzio e Marta, il Saggiatore, Milano 1998.

      Di seguito il testo in quarta di copertina: «Un anziano e famoso storico dell¿arte, folgorato da un ictus e ricoverato in terapia intensiva al Policlinico di Roma, sta morendo. Sullo schermo della sua memoria offesa trascorrono brandelli d¿una vita posseduta da una insospettata violenza, vissuta secondo i canoni del più dogmatico scetticismo; una vita che ora tenta disperatamente di ricapitolarsi, disporsi lungo la parabola d¿un destino, darsi un senso. Marzio però, alla resa dei conti, di sé conosce soltanto la ragnatela di mistificazioni con cui ha tentato di ¿farla franca¿ volta per volta, il povero carnevale delle sue bugie, il teatro di un decoro 168 si gioca un impossibile e forse anche inutile, poiché tradivo, redde rationem di una famiglia sciagurata e infelice nel momento della morte di un padre indubbiamente difficile da amare.

      Il primo dei quattro monologhi che compongono Teodia4 s¿intitola Ciò esula e configura il tema dell¿alterità a livello del borghese oscurato da una sinistra ambiguità. Il senso non è lì. Se c¿è, è in un remoto altrove. Ma se, giunti al fondo delle nostre minime esistenze senza significato, nell¿insostenibile atto di morire, fossimo tutti fragilmente, infantilmente, segretamente grandissimi? Mentre la figlia Marta, attonita e disperata, lo assiste al di là del vetro ricomponendo l¿ordito del loro rapporto, riaffiorano in Marzio, alla superficie del coma, i ricordi di un¿infanzia protetta e di una lingua materna misteriosa e intima, fastosa e incomprensibile. Ma, fra lucidità e delirio, affiora anche una colpa imperdonata: istigato dal suo gretto narcisismo, Marzio ha sottratto al figlio Stefano documenti e risultanze di una ricerca geniale.

      In questo romanzo in versi Ludovica Ripa di Meana, che compone con i due precedenti una trilogia ¿in crescendo¿, l¿aspra cantabilità degli endecasillabi si avventura nell¿insondabile con la sfrontata esattezza della pietà, prestandosi a mimare nel silenzio del vecchio Marzio il gergo arcano dell¿armonia; nelle voci degli ospedalieri, la banale tragicità del quotidiano; nella tessitura della cantafavola, una costellazione di storie che si accavallano, come accavallate abita l¿ansia e la smemoratezza di Marta, la bellissima figlia disabitata dalla felicità».

      4 I quattro monologhi sono stati riuniti in volume e pubblicati nel 2003 (Ludovica Ripa di Meana, Teodia. Quattro monologhi, Nino Aragno editore, Torino 2003), ma la loro composizione è antecedente a quella della tragedia Kouros, pubblicata nel 2002. Di seguito il testo in quarta di copertina: «Questi quattro monologhi sono proprio monologhi? Vediamo.

      Ciò esula è la deposizione in Corte d¿Assise di una povera donna cui il 169 discorso: etimologicamente il verbo allude a un altrove straniero, l¿esilio appunto, ma nel senso più diffuso, che è anche quello dell¿espressione usata durante il processo in cui la protagonista testimonia, il riferimento è a una mancata pertinenza, a una negata appartenenza di tutto ciò che Luciana dice di sé, della sua storia, delle sue ragioni, dei suoi sentimenti, del suo conflitto, in una parola, della sua vita di fronte al corso marito ha assassinato l¿unico figlio bambino per furore di desiderio: a domanda risponde, ma le domande di magistrati e avvocati non si sentono, e Luciana dialoga con il silenzio della disperazione. E col silenzio, un silenzio punteggiato dall¿itera-zione di un rantolo, dialoga Il principe furente: un ragazzo che rinfaccia al padre di avergli inflitto un¿educazione narcisisticamente complice, senza ingiunzioni e divieti, senza il coraggio mai di farsi odiare. Il marito di Vlasta è un pingue e anziano fiscalista che, costretto a farsi a piedi cinque piani di scale, dialoga col silenzio di Dio, che ha permesso al cancro di assassinare la sua enorme, amatissima moglie boema. Teodia, invece, ¿monologo interrotto¿, è la tirata teatrale d¿un attore che declama le proprie ragioni disponendosi a officiare un sacrificio teologico: consegnare alla morte una figlia in coma irreversibile, interrompendo i sinistri rituali dell¿accanimento terapeutico; ma una povera donna e un enigmatico gatto frantumano con l¿irruzione della pietà la delirante performance. Tre dialoghi, dunque, ridotti allo scheletro tragico dell¿impossibilità del dialogo, e un monologo che fallisce sconfessando la superbia ontologica di giudicare della vita e della morte.

      Quattro testi in endecasillabi sciolti: l¿autrice, che in versi ha scritto tre romanzi e la tragedia Kouros, convinta com¿è che ¿disciplinando ritmicamente un materiale verbale discontinuo, eterogeneo, spesso vile, il verso restituisce alla sua elementare energia di canto l¿afona tragicità del 170 della legge, di fronte a un tribunale che deve decidere in base ai fatti, in termini di estraneità rispetto alla complessità della vita.

      Il principe furente lo è nei confronti di un padre ¿re¿, ma i termini della questione sono rovesciati rispetto al solito: egli imputa al padre l¿eccesso di libertà che gli è stata accordata, la complicità in cui è stato coinvolto, l¿impossibilità di averlo odiato, la mancanza di un paradigma forte del rapporto padre - figlio. (Questo aspetto dell¿alterità tra padre e figlio, tutta giocata su un confronto segnato dalla conflittuale continuità, dal prolungamento dell¿identità, dalla pretesa omologia torna in vari altri testi di Ludovica Ripa di Meana, da Marzio e Marta a Kouros a La fine degli A).

      Il marito di Vlasta è infine un titolo che, con lo stesso impianto di La sorella dell¿Ave, crea subito uno spiazzamento, uno spostamento del focus, che in questo caso è tutto centrato sull¿assenza di Vlasta e sull¿amore inconsolabile del protagonista del monologo.

      In questi testi teatrali il monologo è semplicemente il risultato di un dialogo in cui l¿altra parte tace: o perché non ci vien fatta sentire (il giudice e gli avvocati di Ciò esula), o perché quotidiano¿, persevera nella sua temeraria e affascinante scommessa di produrre un teatro popolare di poesia».

      171 non concede deliberatamente alcuna replica (il padre di Il principe furente, che sulla scena addirittura volge le spalle al pubblico per tutto il tempo dello spettacolo), o perché non concede ontologicamente alcuna replica (il marito di Vlasta parla infatti con Dio).

      La tragicità di questi monologhi è data proprio dalla loro natura di dialoghi mancati. L¿altro silenzioso, a cui si rivolge colui che parla, fornisce il senso a quanto viene detto, lo giustifica, lo esige; eppure, nella realtà della scena, nega al proprio interlocutore (che resta per questo l¿unico locutore) la replica, lo priva di un completamento, ne frustra per certi versi l¿espressione, l¿abbandona.

      Questo altro silenzioso è la manifestazione concreta, per assenza, della solitudine di chi racconta, di chi si racconta; ma ne è anche la necessaria premessa, perché per Ludovica Ripa di Meana il raccontare e il raccontarsi (sempre e solo attraverso la dimensione relazionale dell¿alterità) sembra essere quasi sempre, per ricalcare il titolo di un romanzo di Fenoglio che illustra da capolavoro questo tema, «una questione privata»,5 anche nel momento in cui si occupa delle vite degli altri restando, apparentemente, nell¿ombra.

      172 Il senso di appartenenza, quello alla comunità dei mortali di cui parlava Laroux a proposito della tragedia greca, esiste nelle opere di Ludovica Ripa di Meana soprattutto attraverso l¿incessante interrelazione con l¿individualità, attraverso la tragedia di questo dialogo che non ha mai pienezza di soddisfazione, completamento, risposta pari alla domanda, equilibrio.

      Allora forse ritorna il soggetto, non come illusione ma come finzione. Viene ricavata una forma di piacere da un modo d¿immaginarsi come individuo, d¿inventare un¿ultima finzione, delle più rare: il fittizio dell¿identità. Questo fittizio non è più l¿illusione di un¿unità; al contrario è il teatro di società dove facciamo comparire il nostro plurale: il nostro piacere è individuale ¿ ma non personale» (Roland Barthes).6 Adriana Cavarero ha parlato, in proposito, di «un¿etica del dono» insita «nel piacere del narratore»,7 che equivale anche 5 Beppe Fenoglio, Una questione privata, Garzanti, Milano 1963.

      6 Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, cit., pagina 123.

      7 Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, cit., pagina 10.

      173 a giustificare l¿esistenza della narrazione in virtù della sua gratuità. Come a dire che il dialogo è pienamente soddisfatto solo nelle proprie premesse, solo nelle intenzioni, solo nella propria voce, che in virtù di questi antecedenti deve comprendere già l¿altro. Non la risposta, si badi, ma la presenza dell¿altro, la sua essenza, che sono la ragione del dire e del dirsi.

      Come già sottolineato in precedenza la scrittura trova le proprie ragioni profonde nel gesto, nell¿atto stesso dello scrivere.

      Anche per questo la scelta della poetica della cantastorie attuata da Ludovica Ripa di Meana risulta di grande coerenza: una poetica fortemente improntata al piacere del testo.

      Se leggo con piacere questa frase, questa storia o questa parola, è perché sono state scritte nel piacere (questo piacere non è in contraddizione con i lamenti dello scrittore). Ma l¿inverso? Scrivere nel piacere mi garantisce ¿ me, scrittore ¿ del piacere del mio lettore? In nessun modo. Questo lettore bisogna che io lo cerchi (lo ¿draghi¿), senza sapere dov¿è. Si è creato allora uno spazio di godimento. Non è la ¿persona¿ dell¿altro che mi è necessaria, è lo spazio: la possibilità di una dialettica del desiderio, di una 174 imprevisione del godimento: che il gioco non sia chiuso, che ci sia un gioco» (Roland Barthes).8 Ecco la tragedia insita in questa poetica come dimensione d¿implicazione di sé nell¿altro, di voce che si riconosce solo se prova a dire l¿altro da sé.

      8 Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, cit., pagina 76.

      CAPITOLO OTTAVO Altro essendo dagli altri essendo te Capita che i romanzi d¿esordio stiano all¿opera di uno scrittore, come l¿incipit di un romanzo all¿intero testo: luoghi di focalizzazione importantissimi, decisivi.

      In La sorella dell¿Ave si concentrano e s¿intravedono già molte se non tutte le caratteristiche fondamentali della scrittrice Ludovica Ripa di Meana. La cosa non deve sorprendere, specie qualora si presti attenzione al fatto che stiamo parlando di un cosiddetto esordio maturo, di un romanzo scritto all¿età di cinquantanove anni.

      Cominciamo dall¿inizio: nel primo verso di questo primo romanzo si trova, a mio avviso, il cuore dell¿opera letteraria di Ludovica Ripa di Meana, il suo nucleo incandescente: Misterïosa come Peter Pan.

      176 Almeno per sua sorella. Di lei, più passavano gli anni, più capiva di meno. A cominciare dal principio.1 Ragionando intorno al misterioso si può attraversare l¿intera opera di Ludovica Ripa di Meana, a patto di accettare fin dal principio che quel misterioso permarrà in larga parte tale e quale, inspiegato giacché inspiegabile fino in fondo, eppure ricco di significati e vissuto come indispensabile, necessario.

      Nell¿intervista rilasciata per il quotidiano «Avvenire» a Pierangela Rossi nel 2004 la scrittrice ha dichiarato: L¿altro è misterioso, di noi sappiamo fin troppo. [¿] È solo nel rapporto con l¿altro che uno è. Esistiamo, beninteso, ci sono stati anche gli eremiti. Ma se noi non pensiamo a metterci in rapporto con l¿altro¿ c¿è autismo».2 A essere «misterïosa come Peter Pan» è la sorella dell¿Ave, cioè la sorella della bambina che comincia a 1 Ludovica Ripa di Meana, La sorella dell¿Ave, cit., pagina 3.

      177 raccontare la storia. Queste due sorelle (nella famiglia ce ne sono altre due e altri tre fratelli, sette in tutto) dividono la stessa stanza e in comune, seppur diversissime anzi praticamente antitetiche, hanno molto di più. Lo s¿intuisce già per come vengono nominate o meglio proprio per il fatto di non avere un nome, nel romanzo, essendo sempre designate attraverso la definizione iniziale, quella delle due allegorie delle preghiere che ne sovrastano i letti. Una definizione che le salda, le rende nella loro alterità complementari, le obbliga a una disposizione speculare: una fa riferimento alla sfera dell¿ordine e della legge (la sorella del Padre) e l¿altra a quella della disobbedienza e della ribellione (la sorella dell¿Ave ¿ e vale qui la pena di anticipare che in chiusura del romanzo il suo appellativo torna, in un gioco di parole tra bambine, pronunciato a rovescio, in cui Ave diventa Eva).

      La sorella dell¿Ave è misteriosa e incomprensibile, dispettosa e imprevedibile, ama nascondersi e nascondere le cose: Nascondersi e nascondere, era la sua mania. 2 Pierangela Rossi, E la giornalista si trovò a fare versi, in «Avvenire», 27 luglio 2004.

      178 Scovare, lei, il nascosto, una fede.3 Ormai adulta scompare per lunghi periodi senza dare notizie di sé; vive in Sicilia per una decina d¿anni subito dopo la guerra, poi a Milano nei Sessanta, poi tra la Liguria e Roma e, infine, va a Buenos Aires, dove fa perdere definitivamente le proprie tracce.

      La sorella del Padre la ama con grande dolcezza mista al risentimento dovuto alla fatica di amarla, all¿impossibilità di non amarla. Ma ciò che conta maggiormente, in questo rapporto, è la forza della sorella del Padre di amare anche ciò che è incomprensibile nella sorella, il suo essere «misterïosa» appunto, e per giunta «Peter Pan», ovvero incapace di crescere, maturare, rendersi autonoma e responsabile.

      Il rapporto della voce narrante con la sorella prende dunque i caratteri di un vero e proprio amore per l¿altro da sé, inteso qui etimologicamente come alter, l¿altro di due, cioè che non appartiene al primo e ne è complementare. Ma anche, soprattutto in questo caso, ciò che in quanto altro è sconosciuto, ignoto, a tratti addirittura insondabile, comunque sempre sfuggente nella sua interezza. 3 Ludovica Ripa di Meana, La sorella dell¿Ave, cit., pagina 6.

      179 La condanna a cui la sorella del Padre non riesce a sottrarsi è quella dell¿identificazione, del raffronto speculare con la sorella dell¿Ave, nella quale riconosce una parte di sé, riconosce cioè che una parte fondamentale della propria identità è data anche dall¿alterità espressa dalla sorella, dall¿insondabilità e inafferrabilità delle sue scelte.

      Lo testimonia, meglio di tante altre parole, questo passo: Mi avevi reclamato, ero venuta, tu con i tuoi misteri, senza saper perché.

      Solita storia. Appena rivestita, «domani ti dirò», mi hai detto subito, «domani sera vedrai che ti dico tutto», me lo dicevi triste ma.

      Il giorno dopo eri già fuori all¿alba, solito tuo, reticolata di tracolle, monacata di foulard ¿ be¿, quello è fisso ¿, triste, mio Dio com¿eri triste.

      Nel pomeriggio sei tornata a casa, verso le sei, verdecenere, tremavi: «Quando ho le doglie», hai detto, «servirai, devi aiutarmi, per favore». Infatti, non t¿ho aiutata? 180 Cosa abbiamo fatto, dentro la notte un bidet si è fatto culla, la sonda, quel fagiolo rosa in rosso, tu urli piano, aiuto, ti aiuto, preghi, tiro ¿ cosa abbiam fatto io te noi, lo sai? dimmi da lì, ma di¿: te ne sei accorta? Mi hai detto mica chi era stato, chi erano stati, quei due ¿ quell¿uno e un¿una ¿, a farti stare così, «roba di fabbrica» mi hai detto, «non ne parliamo più, adesso basta».

      Basta un cazzo! quasi morta sei, cretina, deleteri cretini questo siete, tu con tutti i tuoi complici innocenti.

      Perché siccome è al tornio otto ore al giorno ¿ è un¿operaia ¿ no, non si può dire mammana pure a lei, se ficca cannule e poi non sconta pegno? Spasimi, urla, febbre, l¿ambulanza, nella buriana tanto c¿ero io, e tu, e tu.

      Mi dici che scalavi? Mi dici lui chi è, se ti ha convinto lui? oppure se sei stata, per una volta, tu a convincere lui nei desideri? 181 Certo, è così, sono convinta, allora perché scappi così? E lui e lui com¿è, castano? nero? è biondo? è liscio o riccio? e gli occhi come sono? è milanese? ha studiato? è perito? e gli anni, quanti? che, è sposato? è alto? e sul lavoro? è ¿nnamorato? Che paura hai? Se lui ti ama è il genere per te.

      Muta come una sorda sei rimasta.

      Non mi dicesti niente, non ho saputo niente.

      Uscita dalla clinica, nel taxi che ci portava te a casa, me alla stazione, hai solo detto: «Grazie sorellina», alla Hemingway, la mano sulla mia senza guardarmi, e te la sei cavata, imbrogliona.

      Ma io non ti perdono.

      Sogno un sogno irriferibile, da allora.

      Nasce un mio figlio, allegra me lo tengo dentro le braccia Vergine Maria, lo canto, me lo cullo, lo addormento, lo bacio piano sulle tempie e il mento.

      Alle manine apro le ditine.

      182 Poi non lo vedo più, quando è successo? qualcuno lo ha rubato, io vago per la casa, la pancia è diventata una frittata, è una luna nera, le spalle sono curve e i miei capelli vecchi e spezzati sembrano di vetro.

      Vado in cucina a bere un bicchier d¿acqua, ma che lavello c¿è? non è lo stesso: di pietra grigia è così largo e piatto, schizza la goccia che ci batte dentro.

      Il rubinetto è chiuso, e vedo: vedo il mio bambino come un gelatino tutto squagliato sta colando via, provo a fermarlo, tappo con la mano, ma è viscido, cagliato, non si prende, una medusa rosa trasparente spappata lì, è goccia di catarro, peduncolo che pende, di cervello, nello scarico, oddio, ora si stacca, di poltiglie di visciole è la scìa, striscia e ristruscia il letto della fogna, nel fondo è lì laggiù, e così sia.4 4 Ludovica Ripa di Meana, La sorella dell¿Ave, cit., pagine 107-109.

      183 In questo romanzo (e anche nel successivo, Rosabianca e la contessa) la trama dei rispecchiamenti e dei reciproci riconoscimenti nell¿alterità è tutta giocata in chiave femminile: questi primi due libri di Ludovica Ripa di Meana sono di fatto intrecci di storie di donne. In questo, oltre alle due sorelle, oltre alle figure delle domestiche, comprimarie tratteggiate con grande vivezza, ci sono le storie della madre e di sua sorella con i loro rispettivi matrimoni, avvenuti sotto l¿imposizione paterna, e quelle di alcune coppie Elena e Lorenzo, Sergio e Viola, Ada e Giuseppe con cui s¿intreccia la permanenza milanese della sorella dell¿Ave.

      Si riconsideri quanto osservato in precedenza sulla natura d¿intervistatrice e di lettrice di Ludovica Ripa di Meana, la sua passione nel conoscere l¿altro (interlocutore o testo), il gusto di smascherare se stessa nella conoscenza altrui, l¿idea costante che la definizione della propria identità si manifesti in termini di relazione con l¿altro da sé, e lo si accosti ai versi del passo seguente, in cui a confrontarsi sono la sorella dell¿Ave e la madre.

      Una di fronte all¿altra. La prima volta. Negli anni e decenni il vostro era il legame 184 dell¿accanto. Legate come forzate sulla stessa riga, senza vedervi vi sapevate doppia.

      Tu da bambina la spiavi non per vederla ma per saperti, la smascheravi per smascherarti in tempo ¿ ci sei riuscita? ¿ lei, che la sapeva lunga, pure lei preferiva non vederti, talmente ti sapeva, che razza di paura che le davi (della stessa se n¿era inflitte a sé): era un continuo congetturare il peggio, ma le sfuggiva il punto, scivolava.

      Una volta da lei sgusciata fuori, germinata, le eri caduta accanto, come l¿ombra dai piedi ti allungavi a dritta a manca lungo l¿equatore suo, mai e poi mai sul greenwich: non potevi.

      Addosso le buttavi buio e luce per esserle suo sole, eclissi inclusa.5 Enzo Neppi, in un¿analisi filosofica in chiave freudiana di questo romanzo, tra le molte acute intuizioni, parla di Ludovica Ripa di Meana narratrice come di una 5 Ludovica Ripa di Meana, La sorella dell¿Ave, cit., pagine 129-130.

      185 creatura transitiva, patetica, che deriva il proprio orgoglio, il proprio egoismo, l¿intimità stessa del proprio cogito dalla sua innata passione per l¿Altro.6 E infatti i primi capitoli di La sorella dell¿Ave sono scritti tutti in terza persona, la voce narrante qualificata come la sorella del Padre risultando «altro dell¿altro», con evidente sconvolgimento radicale dei paradigmi del genere autobiografico.

      Solo dopo molte pagine, quando accanto all¿amore si fa spazio anche la rabbia nata dalla frustrazione per l¿impossibilità di comprendere le scelte della sorella, unita alla mancanza di reciprocità di quest¿ultima, l¿autrice consente alla voce narrante di dire io e di rivolgersi direttamente alla sorella, in una sorta di dialogo frustrato dalla mancanza di risposta e, più ancora, dalla latitanza di colei che la voce narrante vorrebbe come interlocutrice, dalla sua deliberata scomparsa. Un monologo che si fa ora accorato dolce affettuoso, ora invece provocatorio accusatorio pieno di recriminazioni fino ai toni dell¿invettiva. 6 Enzo Neppi, L¿autobiografia a due poli: saggio su «La sorella dell¿Ave» di Ludovica Ripa di Meana, in «Strumenti Critici», a. IX, gennaio 1994, pagine 117-124.

      186 Il grande fascino di questo e anche di altri testi di Ludovica Ripa di Meana consiste nella sua capacità, davvero speciale, d¿incastrare questi rapporti ¿gemini¿ all¿interno della complessità della vita, nel contesto dei rapporti che i protagonisti intrattengono con gli altri personaggi della storia; consiste nella sua capacità di dar voce e spazio anche ai comprimari, alle comparse, in un modo che non è mai strumentale, anzi l¿opposto (come, ad esempio, nel caso della bambinaia friulana Marilena Poletto, che sostituisce in tempo di guerra le due fräulein tedesche; o in quello dell¿autista Giuseppe, vittima della cattiveria di Marzio bambino, giusto per fermarsi a due tra i casi più memorabili).

      Questo in concomitanza con la scelta, spesso adottata da Ludovica Ripa di Meana, di prediligere strutture narrative molto fluide, generate dal movimento irregolare degli affioramenti di memoria, delle divagazioni e delle digressioni, che si sposano con un sorprendente talento nel condensare in pochi tratti salienti i caratteri e le storie dei personaggi di passaggio, i comprimari, che proprio per questa ragione restano nella memoria del lettore presenti non meno dei protagonisti.

      Questa attenzione speciale, che rende i tasselli dello sfondo non meno attraenti di quelli delle figure principali 187 all¿interno del mosaico romanzesco di Ludovica Ripa di Meana dona compattezza alla narrazione, che, come ha ben individuato Folco Portinari, è quella tipica del «romanzo di parola» più che di trama, in questo caso sorretto anche da una fortissima «espressività immaginativa».7 Il gioco di specchi in cui prende forma il tema dell¿alterità nelle pagine di Ludovica Ripa di Meana è articolato attraverso più movimenti, dà luogo a un incrocio di riflessi, rifugge da schemi banali o dal puro modello del doppio. Nel romanzo d¿esordio, per esempio, anche la sorella dell¿Ave vive una sorta di venerazione per l¿altro da sé, inteso in quanto povero, bisognoso, essendo loro di famiglia nobile, seppur non più ricca: e così lei si fa povera, si dedica all¿altro sia nel privato (con rapporti che arrivano a sfiorare il masochismo) sia dal punto di vista professionale (in veste di assistente sociale): in entrambi i casi, adottando modalità estreme, non risparmiandosi mai, con una generosità di sé che sconfina nello sperpero di sé, nell¿autolesionismo.

      La sorella dell¿Ave è una donna che si ostina a intrufolarsi nelle vite altrui, a dedicarsi agli altri, non sempre senza danno 7 Folco Portinari, Rosabianca in versi, in «l¿immaginazione», marzo 1995.

      188 per sé e per loro, in una perdurante incostanza, anche nell¿alternanza di rapporti eterosessuali e omosessuali, e in un¿inarrestabile curiosità per la diversità delle persone e delle esperienze, affrontate sempre con un pauperismo deliberato e anche ostentato, anzi addirittura rinfacciato alla sorella e alla famiglia d¿origine. Prima in Sicilia negli anni Cinquanta ha una strana convivenza con due donne, di cui è succube, e poi una lunghissima storia d¿amore con un uomo che in realtà non la ama; in seguito, nella Milano degli anni Sessanta, sperimenta la vita di fabbrica e s¿avvicina e fiancheggia le attività terroristiche, dividendo la vita con alcune coppie di amici, le cui storie costituiscono dei romanzi incastonati nel romanzo.

      Se non ci allontanasse troppo dal percorso intrapreso, sarebbe interessante seguire, soprattutto nei tre romanzi e in quella specie di moderna Medea rovesciata che è il monologo Ciò esula, l¿indagine che Ludovica Ripa di Meana conduce all¿interno della complessità dei rapporti coniugali: obiettivo su cui posa lo sguardo e a cui rivolge la propria curiosità in quasi tutte le opere con costanza e passione.

      Nella prima parte del romanzo La sorella dell¿Ave si ha il recupero dei ricordi d¿infanzia della voce narrante, con una regressione puerile del punto di vista, che accentua la miste189 riosità non solo della sorella, ma anche degli atteggiamenti della madre (libertina) e del padre (assente), o degli effetti della guerra sulla vita quotidiana che agli occhi di una bambina di nove anni restano per molti aspetti incomprensibili. In quest¿avvio di romanzo, che occupa all¿incirca un quarto del libro (e in alcuni capitoli a flash-back successivi), si assiste a una ripresa, di matrice fortemente autobiografica, delle vicende familiari di Ludovica Ripa di Meana: le nobili origini e l¿educazione severa, la perdita della ricchezza e il progressivo allontanamento reciproco dei genitori, sullo sfondo della Roma dell¿alta borghesia degli anni Trenta, la cui vita è rappresentata con grande efficacia.

      In una lettura del romanzo che presti attenzione al tema dell¿alterità, non è irrilevante sottolineare che la seconda parte del romanzo, quella in cui le due sorelle sono adulte, si discosta in buona parte dall¿autobiografismo, che caratterizza la prima parte del testo. Il fatto che l¿autrice abbia innestato sulla matrice autobiografica del personaggio protagonista del romanzo elementi immaginari, rafforza ed evidenzia la sua intenzione di dare coerenza al discorso centrale del testo, che è quello della definizione della propria identità attraverso il racconto dell¿altro da sé. La mancata reciprocità dell¿interlocutrice 190 convocata dalla voce narrante, la sua intermittente latitanza e, infine, la sua deliberata scomparsa conferiscono al dialogo che la voce narrante vorrebbe instaurare con la sorella il carattere della tragedia, l¿insanabilità di un conflitto che condanna ineluttabilmente il dialogo alla condizione del monologo, che proprio per questo alterna toni da elegia e altri da invettiva.

      E propriamente elegiaco, anche se interpolato con continui affioramenti del comico, è il tono del secondo romanzo, Rosabianca e la contessa, in cui le due donne del titolo, ormai vecchie e sole, dopo anni in cui la nobildonna ha frequentato la merciaia solo come cliente, diventano amiche.

      Le loro storie sono segnate da atteggiamenti antitetici: prevaricatrice ed egoista la contessa, paziente e generosa di sé la merciaia; per opposte ragioni le loro storie familiari risultano fallimentari. E l¿intero romanzo è un variegato ritratto di personaggi incapaci di vedere l¿altro che hanno di fronte a sé. Le due protagoniste si distinguono proprio per la capacità di conoscere l¿altro: anche se lo fanno con intenti opposti.

      La contessa, gestisce, manipola e inganna fratelli e familiari, lotta con avvocati, al fine di non disperdere il patrimonio, 191 al fine di tenere unita «la roba». La merciaia protegge le figlie, persino quella che ha accusato ingiustamente di molestie sessuali il proprio professore del liceo, il quale per la vergogna si è ucciso; da brava moglie, asseconda e accontenta il marito, e porta avanti il negozio.

      Ma la vecchiaia mischia le carte e la solitudine rende anche la contessa, fino a quel punto spregevole proprio verso i suoi fratelli, per le solite questioni di eredità, capace di un gesto di grande dolcezza, scaturito in realtà da un atteggiamento d¿insofferenza. Samantha, la figlia dei portinai del suo palazzo, ha i pidocchi, cosa insopportabile agli occhi della contessa.

      Cremagliò baccanando su di sé fino su in cima la saracinesca; le braccia in aria, Rosabianca adocchia la contessa un istante, e distante, pacata, predica che non è tutta questa tragedia, che i pidocchi ce li hanno avuti tutti, che lei che c¿entra povera creatura, che lo scricciolo suo, va bene, è maschio, ma i pidocchi gli son durati un niente, che basta farle quelle due tre cose, alla rossetta, portando pazienza, 192 senza schifarsi «alla Samantha, dico», subito si corresse con nelle orecchie la cantata in rima dell¿aborrito epiteto Rosetta.

      Predicò: «Pettinina ci vuole fina fina, smucinare la testa col petrolio, la pezza bella messa per dormire, la mattina nell¿acqua dei lupini intingere i capelli e risciacquare tre volte quattro, poi la pettinina che la passi pianino dritta dritta, questi semetti restano tra i denti così fitta che è, che sono ovette strette attaccate bianche sui capelli» la contessa a sentir rabbrividiva «se però la creatura già non si gratta, che allora c¿è la bestia, e quelli pungono, ti mozzicano quelli, e allora devi fare come le scimmie: apri i capelli e li schiacci coi pollici dell¿unghie, 193 che prima li hai rialzati perché quelli stanno lì piatti e succhiano, uno a uno, uno a uno, finché non hai finito e son rimasti morti spiaccicati tutti i pidocchi che son neri chiari di colore grigiastro un po¿ grigietti».

      Misera barcollava la contessa metafisico shampoo dispiegando adunche dita dentro i bei capelli, e strofinava contro tutto il corpo borsa, giornale, le sue vesti, spigoli del banco, le pareti dei cassetti, e mugolava e biascicava: «Basta parlare di pidocchi, che ti gratti».

      Sparì per qualche giorno.

      Magra riapparve, somala rasata da un foulard stretto e leggero che le aderiva al cranio intorno al volto vizzo; incedette verso Rosabianca; le si fermò davanti, da cliente: «Ce l¿ho fatta, Rosetta, li ho cacciati».

      E in piedi raccontò che anabasi era stata quella contro i pidocchi di Samantha.

      194 [¿] Decise. Scese. In farmacia le dettero uno shampoo studiato apposta: Antipediculosi contro i Parassiti del Capello.

      Fece da sola.

      Prese la bambina che stava ammonticchiata ancora sulle scale, e «credimi, Rosetta, mi ha impressionato la manina, tu mi conosci e sai quanto detesto l¿incivile infanzia d¿oggigiorno, moine, lacrimoni, lagne, che scocciatura la voce dei bambini, vogliono tutto tutti voraci come i lupi, son crudeli, invidiosi, predatori di adulti e di coetanei, sfaticati; libera, non mi son fatta schiavizzare, e figli, come vedi, non ne ho voluti avere: dalle disgrazie me ne guardi Iddio che dai bambini me ne guardo io, così la penso, ma quella manina è rimasta nella mia così leggera, fredda, ferma, che io credevo me l¿avesse lasciata in pegno e lei fosse accucciata 195 ancora giù, che invece mi scivolava dietro come fanno le gondole, e si è lasciata fare come stesse dormendo o fosse morta ¿ quel colera vivente ¿ o mi facesse uno scherzetto da fantasma.

      C¿era di tutto, tra quei ricci, bestie fatte e uova, e sotto c¿era la sua faccia rimasta grande un soldo, le palpebre abbassate, le labbra le tremavano come se avesse in bocca il ghiaccio.

      Ho fatto un primo shampoo, poi un secondo dopo tre giorni; ho fatto le frizioni; mi son messa in grembiule della cuoca ¿ hai presente che cremetta di larve mezze morte sul cuoio capelluto avanza dopo ognuno dei lavaggi? ¿ ho strigliato i capelli a tutto spiano, ogni arruffo, ogni nodo c¿erano uova, anzi no, lendini, si chiamano, c¿è scritto, sembra forfora solo che non vola; i suoi capelli intanto diventavano smorti cencetti, come la sua mano, e lei, lei era tutta diventata esigua, tiepida appena e non parlava più.

      196 Vuoi sapere Rosetta che è successo? Dal disgusto, dal panico e l¿orrore di prendermi i pidocchi dappertutto, non riuscivo a parlar nemmeno io; non mangiavamo più, non io, non lei; il suo sonno non so, conosci il mio, per tre giorni ho sognato solo vermi: vermi giganti rosa tesi lisci mi cadevano addosso senza peso spaccandosi all¿altezza della pancia, e da ogni pancia aperta rotolavano milioni di vermetti, frana muta di vermi che divorano l¿un l¿altro dimenandosi in palle scarciofate, scusa il termine.

      Dopo sei giorni, risultati zero; altri tre son passati, poi ho deciso: c¿è da rapare la bambina a zero.

      Senza dirlo alla madre ¿ a lei l¿ho detto ¿ la porto dal barbiere della piazza, lei stranamente sempre arresa, buona, una stilla di forza, di allegria 197 non le scorreva per le gambe e braccia, se penso a che sciagura in carne e ossa rappresenta per tutti gli inquilini, non mi sembrava vera la sua testa, sbucata dal bianco del lenzuolo che le avevan legato in giro al collo, ferma e duplicata nello specchio, china, già pronta per il supplizio, giù.

      Finito tutto, quel cranietto nudo pieno di morsi, anzi, crosticine, mi faceva penissima, ma quel che mi ha inquietato è la bambina intera: piangeva come un grande, senza scosse, senza muoversi affatto, cancellando rapida, di continuo, le tracce del suo pianto dalle guance. Sai cosa, Rosetta? era umiliata, era la prima volta in vita sua: l¿ho visto dalla sua rassegnazione, com¿era inconsolabile, stupita di provare un dolore così grande.

      No, Rosetta: davanti al disonore di certe umiliazioni, tu non devi chiudere gli occhi. Io, così, ho deciso».

      198 E la contessa si snodò il foulard alla nuca, lo fece scivolare su una stoppia di ciocche poche, tronche, storte, riverse, sui tizzoni spenti dei gloriosi capelli suoi di brace: lì dal barbiere stesso avea dato di piglio alle forbici e tagliuzzando in qua e in là nella brandita capigliatura, dritta all¿impiedi alle spalle di Samantha: «¿Samantha¿, le ho detto nello specchio io, Rosetta, ¿lo vedi, che non è niente di speciale? Serve, ricrescono più forti; ora vediamo chi di noi due fa prima a riaverli lunghi come prima¿, e la birba rideva ferma ferma a veder la contessa spelacchiata come un gatto, e ho notato, Rosetta, che respira in modo non del tutto regolare: sono convinta soffra di adenoidi, bisognerà la porti a far vedere dall¿otorino, e anche farlo in fretta, da quella madre che ti aspetti? niente».

      Ammutita ingoiava Rosabianca 199 con gli occhi la contessa; muta ancora uscì di dietro al banco e l¿aiutava a riannodarsi il fazzoletto in testa, strinse alla nuca, fece una carezza come fosse uno sbaglio della mano.

      Smemorò per un attimo a guardare sgombro di chioma il dietro di quel collo, pensò che mai l¿aveva visto prima, che era misteriosamente antico, come il dietro, pensò, di una credenza per un trasloco al mezzo di una stanza, e che le linee incise sulla carne salivano su sbieche a tortiglione come le nere quattro colonne dell¿altare di San Pietro. «Da te mica me l¿aspettavo, Carotona», pensò pensando e presta tentennava la testa per assenso, né si accorgeva che fra sé e sé era passata al tu con la contessa.8 La scelta di questo lungo prelievo dal romanzo, quasi un intero capitolo, è dovuta al fatto che si tratta di un momento cruciale nello snodo della trama, ma anche del momento in cui 200 confluiscono, in poche pagine, molti degli elementi fondamentali a proposito del discorso sull¿alterità che attraversa l¿opera di Ludovica Ripa di Meana.

      La contessa che decide di risolvere il problema dei pidocchi come una delle tante questioni condominiali, entra in contatto, letteralmente, con l¿altro da sé, nella forma di una bambina che ha ¿ coincidenza irrilevante? ¿ i capelli rossi proprio come lei.

      Quando vede la bambina piangere disperata e umiliata, potrebbe senza alcuna difficoltà provare a consolarla con la contropartita di un giocattolo o di un dolce, banalmente. Invece sceglie di mettersi in gioco, di entrare in dialogo con la piccola; e non è un caso che la prima incrinatura della monade affettiva in cui la contessa era asserragliata sia stata sancita dal contatto con la mano della bambina, e che la sua decisione di instaurare un rapporto con la bambina sia passato attraverso il sacrificio della propria capigliatura: ancora una volta a parlare è il linguaggio del corpo, il quale non fornisce risposta, non offre soluzione, ma apre la questione, cambia la prospettiva, sostituisce il paradigma di riferimento: entrambi questi gesti rientrano, infatti, in quello che Julia Kristeva ha chiamato l¿«ordine 8 Ludovica Ripa di Meana, Rosabianca e la contessa, cit., pagine 58-64.

      201 semiotico della madre» e Luisa Muraro l¿«ordine simbolico della madre».

      El cuerpo interroga las sensibilidades, las ideologías, las creaciones, pulsa los deseos, los humores, las pasiones, las sensaciones, cuestiona las teorías y los dogmas. No proporciona respuestas, y concede dudas innumeras, o al menos su beneficio, y así de lo material a lo espiritual, el cuerpo flexiona un arco que se tensa desde la existencia fisica y espiritual, hasta el cuerpo symbólico, social, legislativo, el cuerpo de dios y el cuerpo demoníaco, el cuerpo corrupto y el cuerpo virginal, el cuerpo trasvestido y el cuerpo de la desnudez, el cuerpo del hombre y el cuerpo de la mujer.9 Il gesto di solidarietà affettiva di Rosabianca nei confronti della contessa, quella «carezza» travestita da «sbaglio della mano », sancisce in modo silenzioso, ancora una volta attraverso il linguaggio del corpo, l¿abbattimento della distanza sociale che 9 Carmen Ramírez Gómez, Aproximación a la historia de las representaciones del cuerpo de la mujer: de los antiguos tratados de anatomía al arte carnal de Orlan in AA.VV., Las mujeres en la cultura y los medios de comunicación, ArCiBel Editores, Sevilla 2004, pagina 57.

      202 separa la nobildonna dalla merciaia, che a quel punto può passare al tu, quasi senza nemmeno accorgersene. E il paradosso sta tutto nel fatto che a essere promossa di grado, non è la merciaia, bensì la contessa, che ha dimostrato, attraverso la generosità del suo comportamento, di meritare la confidenza personale dell¿altra donna.

      Ed è proprio il linguaggio del corpo a parlare in uno dei vertici dell¿opera di Ludovica Ripa di Meana, il capitolo conclusivo del romanzo Rosabianca e la contessa. Sono pagine, queste, che richiamano alla mente la violenza apocalittica dell¿ultimo Testori, scrittore alla cui opera per vari aspetti si può accostare quella di Ludovica Ripa di Meana.

      Intervenendo in un convegno dedicato all¿Apocalisse, Ludovica Ripa di Meana ha fatto riferimento proprio a questo capitolo finale, chiosandolo con le seguenti parole: L¿ultimo capitolo del libro racconta la percezione che una vecchia merciaia, frastornata dalla televisione, ha della guerra di Bosnia. La percezione è così violenta, che la merciaia s¿identifica totalmente, corporalmente con tutto quello che vede [¿]. Quello che ho tentato di fare è di mettere a verbale, di pronunciare quel che tutti abbiamo visto e 203 continuiamo a vedere nelle ore dei pasti, in uno stato di indolenzita atonia, arresi all¿abitudine. Nell¿Evo dell¿Immagine, in questo tempo in cui siamo sopraffatti dall¿alluvionale repertorio visivo dell¿attualità, c¿è un livello di saturazione, oltre il quale le immagini che ci cacciamo negli occhi non creano più immagini mentali. Ci ingozziamo di abominii come oche ingozzate di paté. Il cervello non elabora, il cuore non altera i battiti. Non ho voluto gridare l¿orrore: ho voluto nominarlo [¿] ho cercato di ribattezzare le immagini, una per una.

      Già con molto anticipo Paul Valéry aveva osservato che la ricerca dell¿effetto immediato e del divertimento possente ha eliminato dal discorso ogni ricerca di coerenza, e dalla lettura la lentezza intensa dello sguardo. Ormai l¿occhio apprezza un crimine o una catastrofe e vola via.

      Ecco, per intero, l¿ultimo capitolo di Rosabianca e la contessa: Divenne donna in fila per il pane, 204 sbucata da una tana in mezzo a cento e più di cento in fila di ogni età.

      Divenne lei che avanza passo a passo e spera basti il pane fatto e poco, senza pensieri, solo per il pane; diventa scoppio, urla, il suo dolore, si sente il fianco e non c¿è più la gamba, tenta intorno, la trova, se l¿abbraccia, cerca di alzarsi, scivola, riprova, scorre correndo il sangue sull¿asfalto, il sangue scorre come in delta vasto.

      Diventa quelli che le stanno intorno.

      È due bambini retti morti in spalla a loro madre, e lei è peso e madre.

      Diventa l¿uomo e la camicia azzurra inzuppata dei visceri estromessi dalla granata che gli si è messa in pancia, è la granata, lei, è lei la pancia.

      È il filone di pane che si gonfia piano di sangue. È quel giaccone a scacchi rimasto addosso alla metà di un uomo, è la metà rimasta nelle maniche, lei, di quell¿uomo, è la metà che manca.

      Moncherino di coscia è di lattante, aperto il pannolone, che si sposta 205 accanto all¿altra gamba che lo scalcia; è gli occhi della madre che l¿osserva, la mano che lo fascia e l¿accarezza.

      il cuore è che lo ama più dell¿altra.

      Ragazzo, è lei, leggero come foglia secca che al vento lieve s¿è spiccata e cade obliquo e invade tutto il vuoto all¿incrocio deserto tra tre strade.

      È coperta da stiro, lei, strinata, che copre e poi ricopre cadaveri sbranati.

      È minareto conficcato palo nell¿occhio polifemo di una casa.

      L¿orba donna è che cuce a sghemba testa china alla Singer, l¿ago nella stoffa, è l¿orbita vacante sotto pezza.

      È il bambino che in braccio a quella donna bella ride e le sfrega baci alla cinese e sulle spalle piccole, all¿annaso, ali svolazzan vuote manichette.

      È la goccia dal naso della donna che piange e guarda il morto figlio in foto.

      È la caviglia di ferro conficcata nel polpaccio di protesi per prova.

      È diventata mille e mille gambe fuggevoli piegate a penitenza 206 di creature forzate a stare giù.

      Gli antri cecchini, è diventata. I fu palazzi. Esplosi intonaci. Gli ora mattoni a vista. È lei la colonna implacabile di fumo che fascia immota gli edifici intatti.

      È il battito di uno steso in sangue, è il sussulto tra i suoi recisi nervi, è il piscio di paura tra le gambe.

      È la schiena ustionata, i glutei sfatti, è tutti i peli intorno al gran cratere, lo stupore schiacciato sulla faccia dell¿uomo di quel corpo, e la sua morte.

      Languido idiota condannato a morte diventa, stupratore diventa e le stuprate, diventa l¿atto stesso cazzo in fica, cazzo in ano, diventa, cazzo in bocca.

      Diventa baionetta che s¿infila tra i coglioni, li alza e taglia via; cadavere ragazzo di un soldato a bocca piena di lisci genitali Rosabianca diventa.

      Lei diventa.

      Diventa il biancheggiare delle ossa di insepolti su spiazzi abbandonati; 207 diventa vive e rosee le ossa rotte che insorgono da carni sbrindellate.

      Le labbra con le croste, il fiato arso, bocca che muore divenne di bambina.

      Brandelli umani penzolanti ai rami divenne Rosabianca, e sotto era sei uomini cadaveri in picnic; era paesaggio immerso nel tramonto, resti di cibo, era, era i bicchieri pazientemente insulsamente vetro a trasparire una dorata luce; sedie vuote di ferro e tavolino era, le scrostature, la ruggine, lo zinco gonfio di bozzi in piano e le pozzette di liquido versato e trattenuto; il più giovane, era, bellissimo, bocconi, di forse quindici anni, forse meno, poggia il profilo bruno contro l¿ombra, ma sotto il naso di baffetti è biondo; è, Rosabianca, l¿unico supino, un vecchio è, e guarda in aria serio, gli occhi di latta, resti di sé per aria; è Rosabianca gli altri quattro, quasi solo la testa sono gli altri quattro, con le sdegnose altere facce calme, 208 mentre lì intorno piangono le cose e Rosabianca è il pianto delle cose.

      È vecchietti volati giù dai camion come fascine. È il sangue a garganella da un soggolo di bende maddalene, il piastriccio di sangue in una bocca che piange e sputa per non inghiottirlo.

      È la benda che gira su una faccia e allenta un po¿ per l¿aria a bocca e naso, ma gli occhi gli occhi sono sotto, sotto.

      È il ferito piegato a marionetta, a benna sollevato dalle braccia con altre braccia che lo pescan dritto in carcere al suo sangue, e lei diventa tutto quel sangue che lo cola a strisce.

      È la tuta mimetica che corre, che corre corre tra alte margherite.

      È la scarpa arancione a tacco alto finita tra le zampe a un cane morto, e cane lei divenne, cane morto.

      È collottola rosa, e basco azzurro, è il bordino di cuoio di quel basco.

      È la faccia di un uomo, Rosabianca, a larghi quarti, grassa di durezza, è i suoi capelli neri quasi bianchi 209 che tropicali mangiano la fronte, è la sua giacca grigiogesso quadra, scosta indietro alle spalle, da tenere troppa carne ha sul cuore, troppa carne, e divenne quel cuore sotto carne.

      Una mitraglia, è lei, che spara e balla tra cespuglietti, è i bossoli che, grilli, schizzano a mille in verticale e via.

      È il grilletto premuto e ripremuto, è l¿indice che preme e non si fiacca, la testa che comanda di odio sfatta.

      È la canotta verdeferro intrisa di sudore, è il sudore che goccia nell¿ascella.

      È l¿aereo seduto nell¿abbaglio della notte, i carabinieri snelli per la scaletta a scaricare stracci, è gli stracci, è il ministro in doppiopetto che bacia stracci nell¿immane vuoto degli internazionali, è il doppiopetto, è il vuoto che cancella quegli stracci.

      È il sorriso leprotto di una donna, donna morta in divisa da obitorio sulla lettiga a terra, avvoltolata nella coperta rosa come triglia in carta gialla, o totano, al mercato; 210 è il legaccio che lega l¿uovofaccia bello stretto per smetterle il sorriso; è le mani dell¿uomo accovacciato in ciabatte, mutande, occhiali neri, a sollevar la testa delicata e riposarla, sistemata meglio; l¿orecchio è della donna, è una poltiglia di visciole e capelli appiccicati; è l¿orecchio di cuoio del marito.

      È la scure per fare tante schegge che fan da croce ai morti senza nome, cade cade sui ceppi, è legna, è legno, diventa la foresta che non basta.

      È una bocca spavalda senza nome, è sigaretto in angolo di denti, è l¿elmetto che spiatta sulla testa, è il foulard girocollo rosso fuoco che spuma dalla giubba militare, è la destra inguantata che solleva come una coppa il bel mitragliatore, è cinta e tascapane, è lo stivale in posa sulla preda macellata, è il soldato ridente, rimpinzato, tra le gambe è la bomba che gli pende.

      È Rosabianca, è.

      211 È e si alza.

      È e va in bagno. È e prende la sua lacca ¿ per i riccetti suoi consistere, far duri ¿ è, Rosabianca, e si risiede, e guarda.

      È quella donna in fila per il pane, moncherino di coscia, cazzo in ventre, puzzo di cuore è, squarciata gola.

      È Rosabianca che spalanca gli occhi, e dentro gli occhi spruzza, rossi e duri, tutta la lacca fino in fondo, tutta, e spense a sé per sempre il dolce lume.10 La violenza delle immagini della realtà, l¿impossibilità di ricostruire l¿insieme, limitandosi al particolare, a ciò che emerge dal tutto indistinto, richiama alla mente la visionarietà delle tele dell¿inglese Francis Bacon, di cui tratta l¿ultimo capitolo, intitolato «Arcaico».

      È, questa mia, più una suggestione che una notazione critica, un¿impressione che meriterebbe verifiche e indagini ulteriori. Io, per ora, mi limito a evidenziare come entrambi questi artisti subiscano un¿attrazione da parte della violenza 10 Ludovica Ripa di Meana, Rosabianca e la contessa, cit., pp. 177-182.

      212 della vita; c¿è sia nelle pagine di Ludovica Ripa di Meana sia nei dipinti di Francis Bacon il senso dello scandalo della violenza come confronto con la verità di ciascuno, la tragedia che scaturisce dalla necessità che l¿uomo ha di sentirsi infinito, più grande del proprio corpo e della propria esistenza, aperto al mistero e all¿ignoto.

      La visione e la percezione hanno un ruolo fondamentale nella scrittura di Ludovica Ripa di Meana: Di solito vengo violentemente catturata da un¿immagine.

      I versi scelgono me. L¿immagine mi dà la struttura.11 E non è un caso che il suo stile abbia mutuato dal magistero ineguagliabile di Carlo Emilio Gadda quella che Cesare Segre ha definito «un¿ardita produttività neologistica»12 che si associa a un gusto infantile, bambinesco di giocare con le parole: qualcosa che ha molto in comune con la plasticità delle 11 Luigi Vaccari, Ho scritto diciassettemila versi ma in Italia sono una clandestina, cit.

      12 Cesare Segre, La merciaia e la contessa unite dal peso degli anni in «Corriere della Sera», 27 novembre 1994.

      213 forme, la mutevolezza dei colori, il cuore delle facoltà immaginative e fantastiche.

      La stessa scrittrice in più parti della sua opera fa emergere, attraverso la voce di questo o quel personaggio, il ricordo di filastrocche infantili, cioè di quel tipo di narrazione che si sposa al ritmo, alla musica, tipica dei racconti della più tenera età. E ha sottolineato il fascino quasi istintuale, ancestrale che questi versi esercitano, magari anche solo in maniera inconscia, su di lei e sulla sua scelta ¿istintiva¿ di raccontare in versi.

      Ho scelto l¿accostamento con un pittore, perché vorrei attirare l¿attenzione sul senso della vista, che ha nell¿opera di Ludovica Ripa di Meana una valenza speciale, particolare a vari livelli. Si potrebbero inanellare molte citazioni, ma mi limito a prelevarne una dal monologo Il principe furente in cui la capacità di percepire rappresenta la forma della conoscenza, e il suo impedimento una dannazione che il figlio rimprovera al padre: m¿impedivi già la percezione della durezza e alterità del mondo.13 13 Ludovica Ripa di Meana, Teodia, cit., pagina 74.

      214 Il tema della percezione come forma di conoscenza, di esplorazione, assume la dimensione addirittura di una vasta e articolata sinestesia che investe un intero capitolo, quello conclusivo del romanzo Marzio e Marta.

      Se La sorella dell¿Ave era terminato con un dialogo tra le due bambine nel buio della loro camera da letto, Rosabianca e la contessa con il buio dell¿accecamento di Rosabianca di fronte all¿orrore del mondo, Marzio e Marta termina con il buio della morte di Marzio, che si realizza attraverso una metafora corporale di scandalosa e possente intensità, a cui si arriva attraversando un capitolo in cui possiamo veder riaffiorare, a ulteriore riprova della compattezza e della coerenza della scrittura e della Weltanschauung di Ludovica Ripa di Meana, alcuni dei suoi temi ricorrenti: la conoscenza che si manifesta attraverso la percezione corporea (qui è la sete); l¿immagine, anche solo legata a un dettaglio, capace di generare e far scaturire la narrazione (la spremitura delle arance); il rispecchiamento nell¿altro da sé che è il mondo e nell¿altro da sé che è, in questo caso, il padre e il riconoscimento del proprio amore nei loro confronti.

      Ancora una volta, vale di più sentire direttamente la voce della scrittrice; ecco l¿ultimo capitolo di Marzio e Marta: 215 Va sola Marta lungo il corridoio ha sete, tanta, è una sete rara che le sta in petto come tosse secca, che le fa male come se attaccasse ossa a trachea, esofago a sterno, una sete desertica, primaria che mano a mano asciuga il sangue, il siero; si sente diventare di pirite, sfrega passi, ha bisogno di aranciate, c¿è un chiosco proprio fuori il policlinico dove premono e spremono le arance: grondanti son le pile di metà decapitate, sviscerate da la punta arrotondata scanalata per ruscelletti scorrere in bicchiere, limpidi prima, poi farraginosi d¿interne bucce, filamenti, semi¿ ¿per un succo d¿arancio la mia vita!¿ Marta traversa il viale trafficato; 216 la sete è diventata un soldo nero che la buca nel mezzo, no, la tappa, che s¿ingrandisce a dismisura e tutta se la prende; non sente (signorina) ¿Marta sta in piedi nella luna nera come l¿uomo nel cerchio di Leonardo; il fetore di plastiche, alluminio, del bancone di zinco la seduce: è sensuale la sete, è un personaggio che pretende i contesti del piacere, ci vuole appiccicume, righe nere, il pregresso rossetto a bordo vetro, cotte dal¿acqua fredda mani rosse desagomate e con le unghie zozze che porgono, rimboccano (suo padre) palpano frutti, tagliano, e all¿incasso le cinquemila cambiano in moneta, una strusciata in fronte, e sotto un¿altra arancia! (sta morendo, signorina).

      Beve d¿un fiato Marta per tre quarti 217 la sua spremuta ¿ rosa ¿ ma rimpiange che il sugo non si possa masticare, rimpiange non avere i denti in gola; in fondo che le resta, un dito circa, è diventato il mondo il mondo il mondo: è bello come il sole all¿orizzonte, è bello come tallero nel fango, è bello come l¿occhio di civetta, come faccia di bambola di pezza, ¿ che quel sole tramonti o stia sorgendo non gliene importa niente, purché sia orizzonte di mare e Caterina si chiamava la bambola di pezza ¿ è bello come il mezzo della rosa, è bello come l¿isola sparita.

      Chinata su quel disco di salvezza, prova a specchiarsi: «Io ti amo, padre».

      Marta ingollò quel fondo di bicchiere e Marzio entrò nell¿ano della luce.14 14 Ludovica Ripa di Meana, Marzio e Marta, cit., pagine 189-191.

      218 Dove il gioco di rispecchiamenti dell¿altro raggiunge il suo vertice di articolazione e di complessità è nella tragedia Kouros.15 A cominciare dal titolo, in cui Ludovica Ripa di Meana 15 Ludovica Ripa di Meana, Kouros, Nino Aragno editore, 2002. Di seguito il testo in quarta di copertina: «Statue funerarie della Grecia arcaica, i kouroi (ragazzi) marciano nel museo di Atene. Dove vanno, verso dove, con quel lieve passo di pietra, con quei sorrisi enigmatici e definitivi? Liberi e potenti d¿una giovinezza perpetua, incedono senza meta nel labirinto della morte. E Kouros è il titolo di questa inaudita tragedia in versi di Ludovica Ripa di Meana.

      Unico erede maschio di due grandi dinastie finanziarie del Norditalia, Ludovico, nel college americano dove studia, scopre di essere omosessuale, e non se lo perdona, perché sa che non sarà perdonato.

      Rientrato in famiglia, tenta il suicidio, e sanziona nel buio della coscienza la propria inevitabile destituzione battendo in giardini e cessi pubblici.

      Quando si confessa al padre, quello, umiliato dalla disperazione, si rassegna a ¿pazzificarlo¿, affidandolo ai maghi degli psicofarmaci. E mentre la madre, da sempre mortificata dal disamore del marito, lo attrae nell¿orbita di una femminilità vendicativa e gregaria, Ludovico sprofonda nelle bianche acque della depressione. Finché il fato non irrompe sulla scena, e colpisce. Non lui.

      Nella sua indecente ¿scorrettezza¿, nella sua esibita classicità (i cori, i dialoghi verso contro verso, l¿irruenza torrenziale dei monologhi), la tragedia di questo ¿kouros¿ contemporaneo, che incede senza meta nel labirinto dell¿omosessualità, pronuncia forte, con la temerarietà della poesia, ciò che da sempre il fato ha pronunciato: la colpa di essere nati (che si paga con la morte), l¿imperdonabilità di non essere altro che quelli che siamo (che si sconta vivendo)».

      219 si ripropone, provocatoriamente, di ribattezzare l¿omossessuale maschile attraverso la figura appunto del kouros greco.

      Ancora una volta, come nei tre romanzi precedenti, anche in questa tragedia assistiamo al conflittuale riconoscimento di sé del protagonista attraverso il confronto con il genitore. In questo caso l¿alterità del figlio è radicale, riguardando la sua identità sessuale.

      La situazione è portata all¿estremo dal fatto che il giovane kouros contemporaneo è il rampollo di una famiglia ricchissima e potentissima. Anche qui torna il tema della ricchezza come castrazione della conoscenza, ostacolo invalicabile al raggiungimento di un rapporto di verità con il mondo e con la realtà circostante, quasi una forma di gabbia dell¿autoreferenzialità che impedisce il riconoscimento dell¿altro da sé e dunque il dialogo, condannando chi ne è vittima a una specie di autismo, di paralisi della vita relazionale vera. (E a questo proposito resta esemplare la figura della contessa nel secondo romanzo di Ludovica Ripa di Meana: una donna che comincia la propria vita relazionale e affettiva solo nella vecchiaia, con la frequentazione della merciaia e, soprattutto, con l¿incontro di una bambina, emblema del suo destino e della sua condanna.) 220 Non è difficile in tutto questo riconoscere la matrice della tragedia classica, dell¿ineluttabilità del destino a cui sono condannati gli uomini e dell¿incomprensibilità sostanziale di tutto questo.

      Ho sostenuto, in precedenza, che la sostanza del tragico appartiene ai testi e all¿universo narrativo di Ludovica Ripa di Meana ben prima dell¿ideazione e della scrittura della tragedia Kouros. Può forse bastare la ripresa dell¿incipit del secondo romanzo, Rosabianca e la contessa Non ci capiva niente dei destini.

      Non capiva il destino. Figurarsi il suo. Ora che stava per non esserci più ora che l¿agonia l¿aveva messo in salvo dall¿azzurro traforo del suo coma affioravano detti di cristallo contro lo specchio fermo della mente per riscontrare come il mistero della vita, l¿insondabilità del destino sia un tema presente nell¿intera opera di questa scrittrice.

      Alla maniera della tragedia greca classica, tutto è già accaduto, il fattaccio si consuma alla nascita e la tragedia 221 consiste nel rapportarsi al proprio destino. I romanzi e le opere teatrali di Ludovica Ripa di Meana sono caratterizzati dalla presenza articolata e multiforme di figure che provano a dare un volto al rapporto tra l¿uomo e il destino, tra il demone e la vita sociale, la libertà dell¿essere se stessi e la necessità di aderire o sottostare alle costrizioni della polis.

      La tragedia dell¿uomo è quella di trovarsi nel desiderio o meglio nella necessità di rapportarsi liberamente con i vincoli sociali per essere completamente se stesso. È una sorta di utopia, un bersaglio irraggiungibile a cui è giocoforza mirare. E in questa gara la ricchezza complica tremendamente le cose, esaspera i toni, inasprisce il conflitto.

      Nella tragedia Kouros, tra tutte le opere teatrali di Ludovica Ripa di Meana certamente la più complessa e la meglio riuscita, il discorso intorno all¿altro da sé è condotto su diversi piani. A cominciare dal rapporto fra l¿autrice e la sua opera, fra l¿autrice e il protagonista della tragedia, che si chiama Ludovico, è omosessuale e ama suo padre che invece lo detesta, per identico e opposto rispecchiamento di sé; per continuare poi col fatto che in scena Ludovico si trova a dialogare con un Attore che deve recitarlo, deve essere lui in teatro. E il primo 222 incontro fra i due, la persona e il personaggio, Ludovico e l¿Attore, dice praticamente tutto questo in modo migliore.

      Eccolo: LUDOVICO: Vedi? il canto del capro, la tragedia è già avvenuta prima, in un lontano, scurrile prima, ordinario, ridicolo, come la vita assurdo. La tragedia mentre si manifesta è un corollario di azioni e di paure inestricabili, e di banalità: adesso è solo un¿ex-tragedia, e tu, teatro, puoi ospitare il racconto, non salvarmi.

      Ludovico è successo: lui non può, lui non può più non essere successo.

      l¿assetto irrevocabile del fato vuole la mia deserta identità: pretende l¿agnizione: che si compia solo tra me e me. E gli altri? No.

      Non posso farci niente, è già accaduto.

      Solo lampi, spezzoni, per il dramma.

      Non c¿è prima né dopo: adesso, c¿è.

      Le persone del dramma quante sono? Catturerò la coscienza del re? 223 L¿ATTORE si fa avanti e si segnala: «I¿ll catch the conscience of the King»¿ D¿accordo¿ Amleto, atto secondo, scena due.

      Ma come mai ti scaldi tanto, caro? No, il problema lo colgo, e ben per questo¿ Cosa facciamo? il conte di Southampton? o, alla buonora, il povero Oscar Wilde? Sono passati ¿ non te l¿hanno detto? ¿ quei tempi son passati, amico mio: i lords adolescenti, le spietate guance flosce, le palpebre panciute di Queen Victoria, gli allibiti giudici, le esecrazioni, i carceri di Reading, e le fascine e i semi di finocchio (checche arrosto sui roghi¿ Dio, che puzza!)¿ Tutt¿al più son rimaste le fag hags, sai? le streghe dei froci (me li taglio, se non conosci il genere) a proteggerci, coccolarci, adularci, venerarci.

      Mi chiamo Massimo, faccio l¿attore, ti devo interpretare, e sono gay anch¿io, e sto benone, e son felice: vorrei non la prendessi, tu, sul tragico.

      Siamo nel terzo millennio, tesoro¿ Vuoi saperla, la cosa delle cose? 224 Essere omosessuali è banalissimo, come sai che lo sei: molto banale; il problema è che tutti, etero e noi, ci ostiniamo a pensare gli omo più scriteriati, sensibili, speciali.

      Cazzate! Il punto è un altro: i punto è ¿ femmine-maschi e maschi-maschi e femmine ¿ essere tutti dentro il desiderio ¿ quel rogo smisurato, imperturbabile ¿ non tristi, cupi: liberi, leggiadri, omosessuali, eterosessuali, etero, omo¿ fulgidi, propizi.16 E in questo gioco, condotto con grande abilità dall¿autrice, in cui il protagonista della tragedia porta il suo nome, dialoga con un attore che deve recitare il suo ruolo, non è difficile scorgere l¿ironia con cui la scena del teatro si sovrappone a quella della vita o, per usare le parole di Tadeusz Kantor: Il teatro è il luogo che svela, come un guado segreto nel fiume, le tracce di un passaggio dall¿altra riva alla nostra vita. 16 Ludovica Ripa di Meana, Kouros, cit., pagine 24-25.

      CAPITOLO NONO Soggetto Michel Foucault: «In che modo il soggetto umano si rende oggetto di conoscenza possibile? Attraverso quali forme di razionalità, attraverso quali necessità storiche e a che prezzo accade? La mia domanda è questa: quanto costa al soggetto poter dire la verità su se stesso?»1 Jorge Louis Borges: «Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: il momento in cui l¿uomo sa per sempre chi è».2 1 Michel Foucault, How Much Does it Cost for Reason to Tell the Truth, in Foucault Live: Collected Interviews, 1961-1984, edited by Sylvère Lotringer, New York: Semiotext(e), 1996. Si recupera qui, in italiano, la traduzione in inglese di un¿intervista rilasciata a Gerard Raulet; la versione originale, in tedesco, è stata pubblicata nella rivista «Spuren», 1 & 2, maggio-giugno 1983.

      2 Jorge Louis Borges, Biografia di Taddeo Isidoro Cruz, in Tutte le opere, Mondadori, Milano 1985, volume I, pagina 810.

      226 Alla domanda di un filosofo segue la risposta di un narratore, per dare l¿avvio a un capitolo in cui il pensiero di alcuni filosofi e soprattutto quello di alcune filosofe sembra poter fornire ottime chiavi di lettura del tema dell¿alterità nei testi di Ludovica Ripa di Meana, essendo il problema dell¿identità centrale all¿interno del panorama del pensiero del Novecento, soprattutto di quello femminista.

      Infatti, come ha ben mostrato Rosi Braidotti,3 l¿origine del pensiero femminista contemporaneo si colloca nell¿alveo della medesima crisi epocale in cui si sono sviluppate le teorie poststrutturaliste, condividendo con queste un comune procedere per «dissonanze».

      Sono queste le linee di ricerca e d¿indagine filosofica più interessanti intorno al tema dell¿identità o, meglio, del soggetto.

      Il pensiero femminista degli ultimi decenni del Novecento, infatti, guarda piuttosto a teorici del poststrutturalismo, come Jacques Derrida o Michel Foucault, o del postmodernismo, come Gilles Deleuze, Jean-François Lyotard o Jean Baudrillard, piuttosto che alle femministe degli anni Settanta. Il femminismo dell¿identità ¿ con tutte le distinzioni necessarie richieste da un 3 Rosi Braidotti, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea. Verso una lettura filosofica delle idee femministe La Tartaruga, Milano 1994.

      227 panorama frastagliato e assai articolato in diversi insegnamenti accademici ed espresso con voci anche assai dissimili le une dalle altre ¿ può forse trovare una comune matrice nel concetto deleuziano d¿immanenza, per cui la filosofia ha la necessità di basarsi solo sulla realtà empirica. In questo processo ha un ruolo fondamentale la rilettura che Deleuze fa del pensiero di Nietzsche per il quale la volontà di potenza è l¿elemento differenziale delle forze, ossia l¿elemento che produce la differenza di quantità tra due o più forze in rapporto tra loro.4 Il concetto d¿immanenza, infatti, prevede l¿unicità del reale, costituito da un¿intelaiatura di relazioni piuttosto che di essenze; non vi è differenza ontologica, ma solo enti differenti, posti in relazione fra di loro, senza alcuna trascendenza.

      Simulacri, ciascuno diverso dall¿altro, nessuno corrispondente a un originale, poiché interiorizzano una dissimilitudine. Il simulacro infatti è una vera e propria struttura differenziale, che contiene 4 Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, pagine 79.

      228 un divenire sempre altro, un divenire sovversivo delle profondità, abile a schivare l¿uguale, il medesimo e il simile.5 L¿identità, quindi, non deve essere concepita come un principio primo; né l¿alterità deve essere pensata a partire dall¿identità, poiché quest¿ultima dipende soltanto dalla rete delle differenze: la differenza non è il diverso. Il diverso è dato. Ma la differenza è ciò per cui il dato è dato, ed è dato come diverso.6 Ne consegue che non esistono significati stabili: ogni cosa è se stessa solo in quanto è altra rispetto ad altre cose: la sua identità è successiva alla differenza: si tratta di due letture del mondo nella misura in cui l¿una ci invita a pensare la differenza dalla similitudine o da un¿identità preliminare, mentre l¿altra al 5 Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1979, pagina 227.

      6 Id., Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997, pagina 287.

      229 contrario, ci invita a pensare la similitudine e anche l¿identità come prodotto di una disparità di fondo.7 Ne deriva il primato della molteplicità, a tutto discapito di una totalità originaria e di una totalità di destinazione, essendo stata destituita ogni gerarchia o teleologia, storia compresa.

      In questa direzione opera anche la decostruzione della metafisica dell¿identità di Jacques Derrida, per cui «tutto comincia con la diade», e l¿origine è ricostruita a partire dal divenuto, la coscienza di sé a partire dal rapporto con l¿altro e l¿evidenza del presente presuppone la ripetizione del passato, sicché l¿origine è il presente e il senso è intemporale.8 Michel Foucault predisse che il Novecento sarebbe stato prima o poi chiamato il secolo deleuziano,9 per quanto il suo pensiero è stato capace di generare una nuova interpretazione 7 Id., Logica del senso, cit., pagina 230.

      8 Jacques Derrida, La disseminazione, Jaca Book, Milano 1990.

      9 Michel Foucault, Theatrum Philosophicum in «aut aut», aprile 1997, pagine 277-278. Si veda anche il volume Il secolo deleuziano, a cura di Salvo Vaccaro, Mimesis, Milano 1990.

      230 della realtà e portare a sistema risultati e letture operanti nelle arti, dalla pittura alla letteratura, dal teatro al cinema.10 Uno dei più interessanti sviluppi del pensiero di Deleuze è quello condotto dalla progressione degli studi di Rosi Braidotti11 che amplia la nozione deleuziana di nomadismo, elaborando un nuovo modello di soggettività, che ha chiamato appunto «nomade», «figura iconoclasta», piena espressione della postmodernità, intesa come declino delle tradizionali strutture socio-simboliche: lo Stato, la famiglia e l¿autorità maschile.12 Il soggetto nomade è una figurazione, un inventario di tracce, uno strumento cartografico (Foucault) di mappatura dell¿attualità. 10 Il riferimento è soprattutto agli studi di Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1972 e Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1976; al saggio scritto con Félix Guattari, L¿Anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975.

      11 I saggi di Rosi Braidotti a cui si fa riferimento sono: Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea. Verso una lettura filosofica delle idee femministe, La Tartaruga, Milano 1994; Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, Roma 1995; Nuovi soggetti nomadi. Transizioni e identità postnazionaliste, Sossella Editore, Roma 2002; In metamorfosi. Verso una teoria materialistica del divenire, Feltrinelli, Milano 2003.

      12 Inderpal Grewal - Caren Kaplan (a cura di), Scattered Hegemonies. Postmodernity and Transnational Feminist Practices, University of Minnesota press, Minneapolis-London 1994.

      231 Nella prospettiva di ridefinire una teoria materialista della soggettività femminista, situata all¿interno dei parametri postmoderni, Rosi Braidotti ritiene che ripensare allora il rapporto tra corpo e soggettività diventa il primo gradino del progetto epistemologico del nomadismo.13 E proprio intorno al rapporto tra soggetto e corpo convergono molte delle indagini filosofiche più interessanti del femminismo dell¿identità: la politica parodica della mascherata e i «corpi che contano» di Judith Butler,14 i «soggetti eccentrici» di Teresa de Lauretis,15 la scrittura del corpo femminile di Hélène Cixous,16 l¿identità cyborg di Donna Haraway.17 13 Rosi Braidotti, Novi soggetti nomadi, cit., pagine 12-13.

      14 Judith Butler, Gender trouble. Feminism and the subversion of identity, Routledge, New York 1990; Ead., Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004; e Ead., Corpi che contano: i limiti discorsivi del ¿sesso¿, Feltrinelli, Milano 1986.

      15 Teresa de Lauretis, Alice doesn't. Feminism, semiotics, cinema, Indiana University Press, Bloomington 1984; Ead., Sui generis. Scritti di teoria femminista, Feltrinelli, Milano 1996; e Ead, Soggetti eccentrici, Fletrinelli, Milano 1999.

      16 Hélène Cixous, Il riso della Medusa, cit. 1975; e Scritture del corpo. Hélène Cixous, variazioni su un tema, a cura di P. Bono, Sossella editore, Roma 2002.

      232 L¿incarnazione del soggetto è dunque fondamentale per la ridefinizione della soggettività; e il corpo, infatti, appare con il luogo della sovrapposizione del fisico, del simbolico e del sociologico: una superficie di significazione situata all¿intersezione della presunta attualità dell¿anatomia con la dimensione simbolica del linguaggio.18 Ho mostrato, nei capitoli precedenti, come le tematiche del corpo e delle sue potenzialità significanti attraversino in vario modo l¿opera di Ludovica Ripa di Meana; qui, ora, vorrei richiamare alla mente il significato che la narratrice conferisce al corpo di Carlo Emilio Gadda in quelle pagine di diario che ho ritenuto, nel capitolo terzo intitolato «Il nodo alla cravatta», una poetica sub specie narrationis: la sovrapposizione di fisico, simbolico e sociologico concorre, infatti, nella sola descrizione corporea del grande scrittore, a raccontare molto di più, sia di lui, sia soprattutto dell¿autrice, che lo ricorda e se lo racconta, raccontandolo al lettore. 17 Donna Haraway, Ciencia, cyborgs y mujeres. La reinvención de la naturaleza, Cátedra, Madrid 1995.

      18 Rosi Baridotti, Soggetti nomadi, cit., pagina 78.

      233 E ancora, a proposito della tragedia Kouros, vale soffermarsi sull¿invenzione di questa figurazione provocatoria, per cui gli omosessuali prendono le sembianze dei kouroi, le antiche statue funerarie, «che marciano liete e impassibili, potenti di giovinezza, nel Museo Nazionale di Atene» dice l¿autrice presentando la propria opera che «marciano nel desiderio».

      Ed era stata d¿altro canto la fondamentale intuizione epistemologica della psicanalisi quella di rinvenire le radici del processo di elaborazione del pensiero nella materia prerazionale.

      Il desiderio ¿ vale a dire i processi inconsci ¿ è il concetto chiave per capire l¿identità multipla. Intesa come filosofia del desiderio, la psicoanalisi è anche una teoria del potere culturale. La verità del soggetto viene sempre a trovarsi nello spazio intermedio tra il sé e la società. Il fatto è che al momento della nascita si perde la propria ¿origine¿.19 L¿emozione appare dunque uno strumento di liberazione dai modi di pensare dominanti: 234 Il cogito ergo sum è l¿ossessione dell¿Occidente, la sua rovina, la sua follia. Nessuno è padrone in casa propria. Il processo di costituzione del significato è piuttosto l¿espressione di un desidero ergo sum.

      Kouros è, tra i testi teatrali di Ludovica Ripa di Meana, sicuramente il più complesso per costruzione e il più interessante per la ricchezza di motivi che lo attraversano, alcuni dei quali, con diversa misura, sono presenti in quasi tutte le sue opere.

      A cominciare dalla struttura circolare della narrazione, già messa in evidenza, che qui arriva addirittura a eccedere: la prima scena non essendo chiaro se sia la prima o l¿ultima dal punto di vista cronologico degli eventi. Più in generale, anche quando apparentemente il testo segue il filo di una narrazione, se si presta bene attenzione ci si accorge che i romanzi e le opere teatrali di Ludovica Ripa di Meana vivono in una sorta di presente totalizzante, generato dal fatto che a prevalere sono i personaggi, con la vita che sta loro alle spalle e quella che spetta loro ancora di affrontare. Il motore della narrazione è sempre e 19 Ibidem, pagina 31.

      235 solo la curiosità dell¿autrice nei loro confronti: cosa che dipende dalla sua disposizione testimoniale e dalla sua attitudine da cantastorie, a raccontare quanto ha visto accadere intorno a sé più che ad affidarsi alle costruzione della propria immaginazione.

      In secondo luogo, sembra agire potentissimo l¿istinto visionario, figurativo, come matrice della narrazione: cosa che è in sintonia anche con la scelta della scrittura in versi, con la potenza sincretica che permette all¿autrice in pochi versi di rendere il personaggio, la situazione, l¿atmosfera.

      Ma prima ancora che una circolarità delle scene, Kouros presenta un dichiarato schema di rispecchiamenti: il protagonista della tragedia è un giovane omosessuale di ventitré anni che porta il nome maschile dell¿autrice, Ludovico e, avendo invocato per disperazione l¿aiuto del teatro, ne ottiene che gli venga in soccorso un Attore, che ha il compito di recitare la sua parte, il ruolo di Ludovico, sulla scena. Il rispecchiamento, però, avviene in termini parodici, poiché alla disperazione di Ludovico che vive la propria omosessualità come una dannazione, risponde la leggerezza dell¿Attore che vive invece la propria omosessualità con serenità.

      236 Altrettanto interessante è accostare, soprattutto alle pagine della tragedia Kouros, la riflessione di Teresa De Lauretis a proposito del genere come rappresentazione discorsiva, con cui riprende il concetto foucaultiano di discorso come rapporto della conoscenza con le forme del potere.20 Il tema dell¿identità costruita, decostruita e ricostruita, sia dagli attori sia dagli spettatori, e in particolare il concetto di parodia, attraverso cui si consuma l¿incessante cambio di ruolo, stabilendo che l¿identità non è fissa, ma è sempre la parodia di un¿altra identità, il simulacro di qualcosa che non c¿è in sé, corrisponde per molti versi al confronto fra l¿autrice che presta il proprio nome al protagonista, Ludovico e l¿Attore che deve interpretarlo.

      Judith Butler riprese il concetto estendendolo alla figura della drag in Gender trouble,21 libro che, forse anche al di là delle intenzioni dell¿autrice, scatenò una selva di polemiche per come affrontava la performatività del genere.

      Entrambe le filosofe nei libri successivi hanno sviluppato ulteriormente le loro riflessioni sulla soggettività; e vale qui 20 Teresa de Lauretis, Alice doesn't. cit., 1984.

      21 Judith Butler, Gender Trouble, cit.

      237 cedere la parola a due prelievi consistenti dai loro studi per poi accostarle alla tragedia di Ludovica Ripa di Meana.

      Ecco come Teresa de Lauretis definisce il soggetto eccentrico: Eccentrico rispetto al campo sociale, ai dispositivi istituzionali, al simbolico, allo stesso linguaggio, è un soggetto che contemporaneamente risponde e resiste ai discorsi che lo interpellano, e al medesimo tempo soggiace e sfugge alle proprie determinazioni sociali.

      Un soggetto capace di disaffiliarsi dalle sue stesse appartenenze e conoscenze acquisite, dunque disidentificato dalle formazioni culturali dominanti ma anche critico e autodislocato rispetto a quelle minoritarie con pretese egemoniche, tra le quali includerei un certo femminismo omologato o accomodante, razzista o perbenista. Un soggetto che sa di costituirsi nel corso di una storia sempre in fieri, in un processo di interpretazione e di riscrittura di sé a partire da un¿altra cognizione del sociale, della cultura, della soggettività. È questa posizione mobile, multipla, precaria, inevitabilmente compromessa ma assoluta238 mente nuova nel pensiero occidentale, cui do il nome di soggetto eccentrico¿22 Ed ecco come Judith Butler puntualizza la sua teoria del drag in Corpi che contano: Affermare che il genere è di per sé come il drag, o drag tout court, significa suggerire che l¿¿imitazione¿ si trova al centro del progetto eterosessuale e del suo binarismo di genere, che il drag non è un¿imitazione secondaria che presuppone un genere precedente e originale, ma che l¿eterosessualità egemonica è essa stessa uno sforzo costante e ripetuto di imitare le sue stesse idealizzazioni. Il fatto che la performatività eterosessuale debba ripetere questa imitazione, che istituisca pratiche patologizzanti e scienze normalizzanti al fine di produrre e consacrare la sua pretesa di originalità e appropriatezza, suggerisce che essa è preda di un¿angoscia che non riesce a superare completamente, che i suoi tentativi di divenire le sue stesse idealizzazioni non possono avere un esito pienamente e definitivamente positivo, e che è continuamente ossessionata da quell¿insieme di possi- 22 Teresa de Lauretis, Soggetti eccentrici, cit., pagina 8.

      239 bilità sessuali che devono essere escluse affinché il genere eterosessuale possa prodursi. Il drag è, dunque, sovversivo nel momento in cui riflette sulla struttura imitativa tramite la quale il genere egemonico si produce e mette in discussione la pretesa eterosessuale di naturalezza e originalità.23 I termini della performatività del genere sono a vario titolo rappresentati dai personaggi della tragedia, tutti chi felicemente chi tristemente, stretti in ruoli sociali ben definiti, con modelli da imitare: il padre di Ludovico, imprenditore di razza, misogino e donnaiolo, feroce nei confronti dei tentativi del figlio di sottrarsi al proprio destino di erede; la madre di Ludovico, libertina, consolata dal gin, disperatamente generosa con il figlio fino all¿inutile tentativo d¿incesto pur di provare a redimerlo; le sorelle di Ludovico, diversamente vittime anche loro del destino che le ha relegate a ruoli secondari, rispetto al dio-denaro che governa la vita della famiglia.

      Il contraltare di tutta questa coercizione è rappresentato dall¿Attore che, paradossalmente, è libero nella sua vita di non recitare e può essere se stesso. Poi, nello specifico, è chiamato a 23 Judith Butler, Corpo che contano, cit., pagina 115.

      240 recitare il ruolo di Ludovico, a suggerirgli l¿ipotesi ¿eccentrica¿, capace di «disaffiliarsi», «disautenticarsi», «autodislocarsi».

      Il gioco dei rispecchiamenti si complica, quando consideriamo che il protagonista porta il nome dell¿autrice, che in questo ne fa un alter ego, anche solo nominale, come a stabilire un contatto fraterno, di vicinanza, di prossimità.

      Eppure, è proprio l¿attore a incarnare le qualità di libertà rispetto al potere, alle convenzioni sociali, alla censura esterna e interna, alle piccole inutili convenienze che caratterizzano l¿autrice della tragedia.

      La definizione di soggetto eccentrico elaborata da Teresa de Lauretis, infatti, si attaglia perfettamente a descrivere Ludovica Ripa di Meana, la sua capacità di essere spudorata nel praticare il politicamente scorretto, la sua deliberata marginalità nella scelta del genere letterario, così antico e al tempo stesso modernissimo, la passione che riversa nel ritrarre i personaggi della storia che sta mettendo in scena.

      Ludovica Ripa di Meana si propone, infatti, di raccontare quello che ha visto accadere intorno a sé, quello che sono state o sono diventate le persone a lei vicine, la sua famiglia, la sua società, il suo mondo. In modo diretto, oculare, testimoniale.

      Con un¿idea di vicinanza, fisica, psicologica e affettiva, che deve 241 molto all¿evangelico amore del prossimo, inteso soprattutto nella nozione interpretativa di «farsi prossimo», quella per cui la definizione di chi sia il mio prossimo viene ribaltata nell¿interrogazione su di chi io sia il prossimo.24 24 Un¿interpretazione interessante e acuta di questo passo evangelico in chiave moderna è nel primo capitolo del libro di Adriano Sofri, Chi è il mio prossimo, Sellerio, Palermo 2008. Interessante, anche se indirizzato al dialogo multiculturale, il saggio di Enzo Bianchi, L¿altro siamo noi, Einaudi, Torino 2010.

      CAPITOLO DECIMO Arcaico Non è un caso che, dei tragici greci, Ludovica Ripa di Meana preferisca di gran lunga Eschilo. Il più arcaico.

      Non si tratta certo di ricostruire trame intertestuali: all¿infuori delle maschere dell¿Orestea che l¿autrice fa indossare ai personaggi della tragedia La fine degli A, non è possibile ravvisare altri debiti testuali nei confronti del più antico dei tre grandi tragici. E anche quelle maschere, in realtà, non sono che nomi associati ai ruoli, apposti a celare quelli autentici dei membri, pur riconoscibilissimi, della famiglia Agnelli.

      La storia dei recuperi dei tragici greci, anche solo volendosi limitare al Novecento letterario italiano, è fitta di nomi e di testi notevolissimi, tra cui a puro titolo d¿esempio vale citare per qualità degli esiti quelli di Giovanni Testori e Pier Paolo Pasolini. Questo breve capitolo finale vuole essere, 244 quasi a mo¿ di appendice, una rapida incursione, puramente accidentale, nel mondo della pittura, con il quale Ludovica Ripa di Meana ha da sempre un intenso rapporto.

      Eschilo, dunque, passi pure come un pretesto: da una parte, il tragico più caro a un¿autrice italiana di tragedie, dall¿altra l¿accidente che ha ispirato uno dei trittici più noti del grande pittore inglese, Triptych - Inspired by the ¿Oresteia¿ of Aeschylus.1 Entrambi, ciascuno a proprio modo, pare che abbiamo amato in Eschilo quelle qualità che lo avevano fatto prediligere a Nietzsche: che fosse, tra i tragici, il migliore nell¿educare il lettore ad affrontare l¿eroica tragicità della vita.

      Ci sono molti aspetti che accomunano la pittura di Francis Bacon e la scrittura di Ludovica Ripa di Meana, a cominciare da qualche dettaglio biografico non trascurabile: la severità militare del padre del pittore e la madre «imperatora» della scrittrice romana e la comune esperienza di una ricchezza familiare svanita di cui rimane solo la forma a cui attenersi nonostante l¿assenza della sostanza.

      Due artisti, per diverse ragioni, sensibili alla «violenza simbolica» (Bordieu) e alle prese, fin dall¿adolescenza, con il 245 difficile compito di liberarsi da un «habitus» penalizzante e non confacente.

      Bacon, come dice Lyotard, è un «pittore figurale» piuttosto che figurativo. E sulla stessa linea interpretativa va anche l¿analisi di Deleuze, incentrata sull¿assenza della dimensione narrativa nelle tele del pittore inglese, il quale alla violenza dello spettacolo contrappone la violenza della sensazione: ho cominciato con il dipingere l¿orrore, le corride o le crocifissioni, ma era ancora troppo drammatico. Ciò che conta, è dipingere il grido.2 E in una lettera a Marcel Leiris (non datata, ma scritta tra il 1980 e il 1983) scrive, proprio a proposito del trittico ispirata all¿Orestea: I could not paint Agamemnon, Clytemnestra or Cassandra, as that would have been merely another 1 Si veda la scheda relativa al trittico allegata alla fine del capitolo.

      2 Francis Bacon, La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester, Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma 1991.

      246 kind of historical painting¿ Therefore I tried to create an image of the effect it produced inside me.3 Come ho rilevato in più punti della mia ricerca, anche i testi di Ludovica Ripa di Meana, persino i romanzi, procedono in virtù delle figure dei personaggi piuttosto che lungo lo sviluppo di una trama. Come se fossero questi il fulcro intorno al quale vive il testo in una dimensione che si potrebbe dunque definire figurale.

      Ancora una volta tornando a un tema centrale della riflessione del femminismo postsrutturalista, quella sull¿importanza del corpo, al quale, come aveva osservato Roland Barthes, in quanto sintomo della frantumazione della soggettività del nostro tempo, è preclusa l¿interezza, l¿essere completo: Il corpo totale è fuori del linguaggio, alla scrittura arrivano solo pezzetti di corpo.4 3 Francis Bacon, in Martin Harrison, Francis Bacon. Extreme points of Realism, in Francis Bacon, The violence of the Real, cit., pagina 39.

      4 Roland Barthes, Il corpo illuminato in Il senso della moda. Forme e significati dell¿abbigliamento, a cura di Gianfranco Marrone, Einaudi, Torino 2006.

      247 Ho mostrato in precedenza le molte occorrenze nei testi di Ludovica Ripa di Meana in cui il corpo si dà a pezzi come linguaggio altro, potente, sommamente rappresentativo, esattamente come accade nelle tele di Bacon, con il medesimo effetto di concentrazione intorno al sentimento della violenza, alla sua sensazione (Deleuze), molto più incisiva ed eloquente della sua narrazione.

      249 Triptych ¿ Inspired by the ¿Oresteia¿ of Aeschylus 1981 ¿ oil on canvas Triptych, 198 x 147,5 cm each Astrup Fearnley Collection, Oslo Scheda tratta dal catalogo: Francis Bacon, The Violence of the Real, Thames & Hudson, London 2006, pagine 182-184 e 199.

      Just a Francis Bacon used the biblical crucifixion scene a san ¿armature¿ for addressing ¿the way live really is¿,1 so the Oresteia of Aeschylus with its ¿wonderful imagery¿ gave him a vehicle for expressing ¿something very powerful and very fundamental about exixtence¿.2 The tragedy dramaties the bloody history of the royal couple, Agamemnon and Clytemnestra of Argos, and their children Electra, Iphigenia and Orestes. The king sacrifies Iphigenia for the sake of a military compaign, whereupon he is slain by the queen on his return. Assisted by his sister Electra, Orestes kills Clytemnestra to avenge his father¿s death. After this matricide he is pursued by the Erinyes or Furies, until he is absolved by a court of the gods. The left panel of the triptych shows one of the Furies as a bird-like monster.3 Its sting-like beak points towards a stream of blood flowing from the room behind. It is probably Clytemnestra¿s, since it is her killing that summons these creatures in Aeschylus¿s ancient text.

      The plume of paint that streams from the Fury like a jet of coagulating blood marks her out not only as fitness but also as prosecutor and avenger of the matricide that has been committed in the background. On the right panel, a headless male figure is portrayed, which is probably Orestes. The Fury seems toh ave burrowed into him; two protuberances from his trunk are similar to her legs. The 250 door, a mirror image of the one on the left panel, the scene of the crime, has also taken possession of him. It has caught and punished him, in a manner of speaking, by mangling him, crushing his spine and splitting him apart. The figure¿s flesh-coloured shadow ¿ bearing in mind the left panel and Bacon¿s phrase ¿[W]e are potential carcasses¿4 ¿ seems like a pool of blood. Even a perpetrator is not immune from becoming a victim of the murdered murderer prove.

      The centre panel depicts a figure on a kind of throne. It dips a fragmental and skeletal head into its basin-like pelvis.

      Perhaps this gesture identifies the figure as Clytemnestra ¿ who gave life to the one who would bring death to her ¿ but equally, it may carry a more general implication that all claims to power, even whitin the family, also Harbour a risk of annihilation. The pedestal area that the figure is just stepping onto is like an optical illusion in design, and where the canvas is left bare and empty, it could be a trap-door which will bring downfall in the wake of imperial ascendancy.

      In the early 1980s Bacon wrote to Michel Leiris about Triptych ¿ Inspired by the ¿Oresteia¿ of Aeschylus: «I could not paint Agamemnon, Clytemnestra or Cassandra, as that would have been merely another kinf of historical painting [¿]. Therefore I try to create an image of the effect it produced inside me».5 In this sense, the figures he portrayed are not so much characters as models.6 Even without a knowledge of who Orestes is, what a Fry might be, or either of their roles in the Oresteia, the figures have the destre dramatic impact: the Orestes figure arouses a sense of pity while the Fury causes fear.7 Likewise the figure in the centre panel acts as a surrogate; we look at her but also literally right inside her to see the drama that enfolds her. Bacon was not illustrating the Oresteia, but distilling the tragedy¿s essence and re-producing by means of painting. Deformed models represent being subject to inner conflicts and external constrictions. Shifting spatial perspectives indicate the vagaries of fate. The red colour of the trail of blood and the throne espresses the complications of death and power. And a modern interior suggests that the existential message of the ancient tragedy is still valid, even in the here-and-now.

      FRANK LAUKÖTT 1 Bacon, quoted in David Sylvester, The Brutality of Fact. Interviews with Francis Bacon, London 2002, pp. 44, 46. 2 Bacon, quoted in Miriam Gross, ¿Bringing Home Bacon¿, in The Observer Review, London, 30 November 1980, pp. 29, 31, here p. 31. By his own account, Bacon read the Oresteia of Aeschylus in at least three translations; cf.

      ibid. As an introduction he used the book Aeschylus and His Style. A Study in Language and Personality by William Bedell Standford; cf. Richard Francis, Francis Bacon, London 1985, p. 28. He also read T.S. Eliot¿s Oresteia adaptation, The Family Reunion and used its imagery for his works; cf. Dawn Ades, ¿Web of Images¿, in London 1985, pp. 8-23, here pp. 20-22 and Rolf Læssøe, ¿Francis Bacon and T.S. Eliot¿, in Hafnia, Copenhagen, no. 9, 1983, pp. 113-130. 3 He may used the illustration of a pelican as a source; cf. Margarita Cappock, Francis Bacon¿s Studio, London-New York 2005, pp. 195-197. 4 Bacon, quoted in Sylvester cit., p. 46. 5 Bacon, quoted from Martin Harrison¿s article in this catalogue, p. 39. 6 Cf. Robert Bresson, Noten zum Kinematographen, Munich 1980, p. 7. 7 The effect of fear (phobos) and pity (eleos) from Aristotle¿s Poetics.

      CONCLUSIONE Lo scopo di questa ricerca è quello di attirare l¿attenzione del lettore sull¿opera di una scrittrice pressoché sconosciuta o, comunque, non sufficientemente apprezzata nonostante alcuni critici fra i maggiori abbiano recensito suoi testi e nonostante la sua tragedia Kouros abbia ottenuto il più importante premio italiano per la poesia.

      Questa non costituisce una novità nel panorama della storia della letteratura italiana (e non solo italiana), all¿interno del quale la presenza delle scrittrici e delle poetesse è ancora tutta da delineare, relegato com¿è allo spazio di un¿appendice, femminile, a conclusione di periodi e movimenti in cui le voci delle autrici vengono sistematicamente ignorate.

      Nonostante questo, il mio obiettivo non ha voluto essere tanto quello di colmare una lacuna storico-letteraria, quanto invece quello di dimostrare, attraverso l¿analisi del tema dell¿alterità, come i testi di questa scrittrice entrino nel dibattito 252 del secondo Novecento, dialogando con alcune delle voci filosofiche e artistiche di maggior rilievo non solo italiane, ma anche a livello internazionale.

      Il tema dell¿alterità, infatti, è connesso con le ricerche filosofiche sull¿identità e sulle nuove forme della soggettività che hanno caratterizzato il lavoro di alcune delle voci più interessanti del femminismo poststrutturalista, quello che appunto è stato definito femminismo dell¿identità (Rosi Braidotti, Teresa de Lauretis, Hélène Cixous, Adriana Cavarero, Donna Haraway, Judit Butler e altre ancora).

      Non si è trattato di misurare l¿apporto del pensiero di queste filosofe nell¿opera di Ludovica Ripa di Meana, che, anzi, per suoi interessi personali e percorsi di formazione, è estranea a questa tipologia di testi; quanto invece di notare come le categorie critiche di queste filosofie si prestino a valorizzare temi e aspetti dei testi di questa scrittrice.

      A riprova che, per altre vie, la voce di Ludovica Ripa di Meana entra in dialogo con quelle di queste filosofe, su un tema, quello della soggettività che, come mostrato da Rosi Braidotti, è di particolare interesse per le femministe, ma diventa poi uno strumento di straordinaria efficacia per uno sguardo che si allarga a tutta la realtà.

      253 Una delle caratteristiche di questi nuovi soggetti è la loro marginalità, il fatto che, per trarre l¿aggettivo dal titolo del saggio fondamentale di Teresa de Lauretis, essi sono «eccentrici». Proprio l¿eccentricità di Ludovica Ripa di Meana, sia rispetto al panorama attuale contemporaneo, sia rispetto alla tradizione precedente, mi ha fatto preferire l¿indagine di un tema che ne attraversa l¿opera e ne dimostra la modernità e la ricchezza, piuttosto che la ricerca degli elementi che ricostruiscano a ritroso la genealogia letteraria a cui lei fa riferimento.

      Anche perché, come spesso accade con autrici nate nella prima parte del Novecento, difficilmente si riscontra la volontà e l¿interesse di costruire una propria genealogia femminile. In questo l¿autore di maggior peso nella storia della scrittura di Ludovica Ripa di Meana è senz¿altro Carlo Emilio Gadda, con la cui opera quella di questa scrittrice ha alcuni aspetti assai significativi di similitudine. Ma è rivelatore di una prospettiva nuova, femminile ed eccentrica, il fatto che questo posizionamento all¿interno della tradizione gaddiana del secondo Novecento, al di là dei testi che la comprovano, viene esplicitata dalla scrittrice in poche pagine di diario inserite in un testo rimasto a tutt¿oggi inedito. In quella che ho definito 254 una dichiarazione di poetica sub specie narrationis Ludovica Ripa di Meana lascia che a parlare sia il corpo del grande scrittore morente, dimostrando ancora una volta di essere una voce pienamente inserita nel dialogo femminista, anche se da una posizione eccentrica rispetto ad esso.

      Infatti, credo di aver dimostrato, con questa ricerca, che, all¿interno della prospettiva degli studi di genere, possa avere un ruolo non secondario l¿individuazione di temi e stili ¿femministi¿ all¿interno dei testi di scrittrici sostanzialmente estranee a quella tradizione.

      La dimensione fortemente e radicalmente relazionale della voce narrante pone i testi di Ludovica Ripa di Meana a fianco delle indagini sulla filosofia della narrazione di Adriana Cavarero, in un dialogo ricco e proficuo per la loro analisi e valorizzazione.

      Il fatto poi che la sua opera sia caratterizzata da una molteplicità di esperienze di scrittura (dal giornalismo al ghostwriting ai programmi televisivi) e da testi che appartengono a diversi generi letterari (biografia, narrativa, teatro, poesia), colloca Ludovica Ripa di Meana all¿interno della tendenza, tutta novecentesca, dell¿ibridazione dei generi e degli stili, dimostrandone ancora una volta la modernità e la capacità di 255 essere eccentricamente in sintonia con la tradizione di un canone plurale e complesso com¿è quello contemporaneo.

      RESUMEN EN ESPAÑOL Esta investigación tiene como objetivo analizar la narrativa y los textos dramáticos de Ludovica Ripa di Meana1, tomando como hilo conductor de la lectura el tema de la alteridad. 1 Me parece merezca la pena insertar algunos indicios sobre la biografía de la autora, como ella sigue siendo desconocida para el público en general.

      Ludovica Ripa di Meana nació en 1933 en Roma, donde vive. Trabajó con Elio Vittorini, como editora en la editorial Mondadori, y con Giorgio Bassani en la editorial Feltrinelli; como asistente de dirección con Cesare Zavattini, Franco Brusati y Enzo Muzii en el cine y con Franco Zeffirelli en el teatro. Ha sido periodista para el «Contemporaneo» y «L¿Europeo».

      Para la televisión ha realizado encuestas, programas culturales y la serie de entrevistas-retrato «Gli intrattabili» (entre otros, Pintor, Montanelli, Strehler). Ha sido directora de Carlo Emilio Gadda para la serie televisiva «Sulla scena della vita». Escribió para el cantautor Adriano Celentano, mimando su fabulación extrañada, Il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai (Sperling & Kupfer, 1982). Ha reelaborado, en Dietro l¿immagine (Longanesi, 1987), una serie de conferencias del gran crítico de arte Federico Zeri. De una larga conversación con Gianfranco Contini ha derivado Diligenza e voluttà (Mondadori, 1989), libro que el gran filólogo ha definido «mi primera autobiografía». Su debut como escritora con la novela en verso La sorella dell¿Ave (Camunia), tuvo lugar en 1992 a 258 A pesar de que algunas de las obras de esta escritora hayan recibido el reconocimiento sea por los críticos literarios que académicos (entre otros, sólo para nombrar unos pocos, Cesare Garboli y Angelo Guglielmi, Cesare Segre y Jacqueline Risset)2, a pesar de que se hayan puesto en escena muchos de sus textos teatrales,3 sea por compañias de actores jovenes que se han reveledo luego muy talentuosos (Vinicio Marchioni), sea por actores afirmados en el panorama nacional (Elisabetta Pozzi e Franco Branciaroli), a pesar de haber recibido su tragedia Kouros uno de los premios nacionales más importantes para la poesía (el ¿Premio Viareggio¿),4 todavía se carece de ensayos sobre Ludovica Ripa di Meana que analizen, aunque sólo en cincuenta y nueve. Remito a la primera sección de la bibliografía para la revisión exhaustiva de sus obras publicadas.

      2 En la segunda sección de la bibliografía se da cuenta de todas las declaraciones críticas sobre cada una de las obras de Ludovica Ripa di Meana.

      3 Al final de la primera sección de la bibliografía se proporciona información precisa de los textos teatrales y sus puestas en escena.

      4 En 2002 la sección de Poesia del Premio Viareggio asignó la victoria ex aequo a la tragedia Kouros (Nino Aragno editore) de Ludovica Ripa di Meana y a la colección de poemas La stortura (Garzanti) de Jolanda Insana.

      259 parte, su obra y su figura intelectual, tanto que ella misma se define «una ilegal»5 dentro del panorama literario nacional.

      No sería de ninguna importancia, aquí, establecer cuáles son los factores que contribuyeron a esta lacuna crítica y cual es su peso en la cuestión, salvo que algunos de estos elementos son más bien a mis ojos como los aspectos más fascinantes de la obra y del universo cultural de este escritora.

      En primer lugar la difícil y casi imposible colocación de las obras de Ludovica Ripa di Meana dentro de un género y una tradición reconocible al instante: su irremediable originalidad.

      A continuación, la elección instintiva, pero no menos consciente, de escribir novelas y obras estrictamente en verso.

      Las muchas críticas y las entrevistas que acompañaron el lanzamiento de los libros y la puesta en escena de los espectáculos de Ludovica Ripa di Meana y la simultánea ausencia de intervenciones críticas más generales sobre su trabajo, preferirían un ensayo monográfico, una discusión de los varios temas que han animado la obra de esta escritora: una 5 Luigi Vaccari, Ho scritto diciassettemila versi ma in Italia sono una clandestina, en «Il Messaggero», 17 settembre 2002.

      260 especie de entrada de enciclopedia que aspirara a la exhaustividad, casi un capítulo en la historia literaria, un retrato completo.

      Varias razones me llevan a preferir en cambio una lectura atenta de los textos, casi un «close reading» en el camino del primer New Criticism o, mejor aún, con todos los riesgos posibles de la arbitrariedad, la actitud de crítica fisheriana del «reader-reponse».6 En primer lugar, la elección de una lectura personal de los textos refleja la necesidad de establecer, o al menos tratar de establecer, una distancia adecuada para una lectura crítica de una autora que conozco personalmente desde hace varios años.

      He trabajado como editor en la editorial que publicó sus tres últimos libros.7 Por ende pensé que era una buena manera la de establecer y llevar a cabo esta investigación en una especie de cuerpo a cuerpo con los textos, basándose únicamente en las reseñas y en las entrevistas, con la certidumbre de las informaciones derivadas de mi conocimiento personal de la autora, pero sin instaurar un dialogo ad hoc, sin instaurar una 6 Stanley Fisher, C¿è un testo in questa classe?, Einaudi, Torino 1980.

      7 Sei trata de Kouros (2002), Teodia (2003) y La fine degli A (2006), publicados por Nino Aragno editore.

      261 comparación con las opiniones de la autora, sin concluir este trabajo con una entrevista, ya que muy bien podría ser. El intento ha sido lo de dejar la comprobación de esta lectura, de su efectiva calidad, fuera del diálogo y la discusión con la autora, para un segundo momento, a posteriori.

      Uno de los grandes lectores y críticos de la literatura del siglo XX italiano, Cesare Garboli, ha afirmado en varias ocasiones de haberse ocupado, entre sus contemporáneos, casi exclusivamente de los escritores a quien estuvo unido por el afecto personal, incluso haciendo de esto una elección, una declaración del método crítico. No quiero decir que tengo la intención de fingir no conocer a la autora y sus opiniones sobre su escritura, sino que prefiero correr el riesgo de equivocarme, en mi lectura, pero para llevar la bandera de la libertad personal.

      Confio entonces únicamente en la comparación con los textos, prefiriendo lo que favorece un tema, el de la alteridad, que por un lado me apasiona y por el otro creo que es relevante dentro de las obras de Ludovica Ripa di Meana, siendo muy consciente de que esto es sólo uno entre los muchos posibles dada la producción tan rica y variada ofrecida por sus novelas y sus obras de teatro.

      262 La mayoría de los textos de Ludovica Ripa di Meana tiene luego, en mi opinión, la función de generar una especie de provocación individual, muy personal, en el lector.

      Además, su idea de realismo le lleva a poner en escena la vida o a contarla casi como testigo, ocultando cada filtro de la literariedad, con un resultado de accionamiento directo, con su propia voz como único agente.

      Esto significa que casi nunca es necesario, o nisiquiera útil, identificar en las páginas de sus textos referencias literarias o filosóficas, que no faltan, pero que siguen siendo muy en segundo lugar con respecto a la dimensión de testimonio típica de la narrativa y de la dramaturgia de Ludovica Ripa di Meana.

      Una dimensión testimonial que implica la exposición en primera línea de la autora y, al mismo tiempo, la convocatoria a la primera línea del lector o del espectador. Ambos solos.

      La impresión de que ha acompañado mi frecuentación de los textos de Ludovica Ripa di Meana es la de la radicalización, de un extremismo de las dos soledades que marcan la escritura y la lectura.

      El primer capítulo, «Para un retrato de la escritora como lectora», identifica los elementos de la cultura y de la personalidad de Ludovica Ripa di Meana, que la convierten en 263 una lectora libre de ¿perjuicio¿, empezando por la formación autodidacta, a través del trabajo de redacción para algunas de las editoriales más importantes de Italia (Feltrinelli y Mondadori), dando lugar a colaboraciones con algunos de los periodicos más importantes de la última parte del siglo XX («Il Contemporaneo» y «L¿Europeo»).

      El segundo capítulo, «Autobiográfico otro: Diligencia y voluptuosidad» se enfoca en el libro Diligencia y voluptuosidad.

      Una autobiografía a cuatro manos ¿ una entrevista con uno de los más grandes filólogos italianos del siglo XX, Gianfranco Contini ¿ demostrando cómo la construcción de una voz narrativa única que combina los dos actores, ella que pregunta y él que responde, es fructo de un alto concepto del otro y de una moderna concepción relacional del yo.

      El tercer capítulo, «Autobiográfico privado: Asma», investiga entre las páginas del texto inédito Asma, identificando su género como perteneciente a la autobiografía, sea por la libertad con la que el texto se mueve entre los distintos géneros literarios (novela, diario, poema en prosa, teatro), y porque, acorde con la lectura de la filosofía de la narración desarrollada por Adriana Cavarero, Asma se 264 manifiesta, incluso antes de una historia de sí misma, una historia para sí misma.

      El cuarto capítulo, «El nudo de corbata», se centra en una secuencia del texto inédito Asma dedicada a la memoria de las últimas reuniones de Ludovica Ripa di Meana con el escritor Carlo Emilio Gadda. Son entradas de diario del año 1973 que pueden leerse como una declaración implícita de poética sub specie narrationis.

      El quinto capítulo, «La poética de la cuentacuentos», analiza la elección de Ludovica Ripa di Meana de escribir en verso, tanto en la narrativa de las novelas como en la dramaturgia de las obras de teatro, de una manera consistente con lo que he llamado la poética de la cuentacuentos, en la que la dimensión corporal del texto, o sea su vocalidad, juega un papel clave.

      El capítulo sexto, «Forma y contenido de la tragedia griega clásica», recupera los elementos del mundo de la tragedia clásica griega, que parecen actuar en el ámbito cultural de Ludovica Ripa di Meana, en las formas latentes, en muchos aspectos y consonancias, mucho antes de la escritura de la tragedia Kouros.

      265 El séptimo capítulo, «Titulares», navega por los títulos de las obras de Ludovica Ripa di Meana, en los que el tema de la alteridad se ha reducido en varias formas, una prueba más de su importancia dentro de la Weltanschauung de esta escritora.

      El capítulo octavo, «Altro essendo dagli altri essendo te» (Otro siendo otra cosa de si misma), que toma como título un endecasillabo ejemplar del tema de la investigación en su conjunto, explora cómo el tema de la alteridad se desarrolla y se articula a través de los personajes y las historias ¿inventadas¿ por Ludovica Ripa di Meana.

      El noveno capítulo, ¿Sujeto¿, tiene como objetivo crear un diálogo entre los textos de Ludovica Ripa di Meana, con algunos temas de algunas filósofas feministas que han tratado con las nuevas versiones de la identidad y la subjetividad: desde los «cuerpos que importan» de Judith Butler a la performatividad de los géneros de Donna Haraway, desde los «sujetos excéntricos» de Teresa de Lauretis a la «subjetividad nómada» de Rosi Braidotti, del «orden simbólico de la madre» de Julia Kristeva y Luisa Muraro a la filosofía de la narración de Adriana Cavarero.

      La inclinación de Ludovica Ripa di Meana, hacia un discurso personal e individual, al parecer separado de estas 266 investigaciones filosóficas y todo centrado en una función que llamaría casi de testigo, traza un recorrido que, bajo muchos aspectos, intersecta lo de las pensadoras mencionadas anteriormente: la yuxtaposición de algunos resultados de las reflexiones filosóficas y políticas de estas con las soluciones literarias de la escritora ofrece una clave interesante para la comprensión de su obra, especialmente en lo que concierne al tema de la alteridad que caracteriza algunos de sus mejores textos.

      El décimo capítulo, «Arcaico» como una especie de apéndice, examina algunas de las interpretaciones modernas de la Orestíada de Esquilo, haciendo especial hincapié en las similitudes entre el concepto de realismo expresado por los textos de Ludovica Ripa di Meana y el que expresó el pintor, inglés Francis Bacon.

      El propósito de esta investigación es lo de llamar la atención del lector sobre la obra de una escritora casi desconocida y, sin embargo, no apreciada lo suficiente.

      Esto no es una novedad en el panorama de la historia de la literatura italiana (y no sólo italiana). A pesar de esto, mi 267 objetivo no ha sido tanto lo de llenar un vacío en la historia literaria, sino más bien lo de demostrar, a través del análisis del tema de la alteridad, como la obra de esta escritora entre en el debate de finales del siglo XX, dialogando con algunas de las voces filosóficas y artísticas más importantes a nivel internacional.

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      272 Una versione ridotta dell¿intervista a Carlo Emilio Gadda è edita in videocassetta nel documentario Gadda racconta Gadda, a cura di Mauro Bersani e Maria Paola Orlandini, regia di Antonella Zecchini, Rai Educational, 2003 allegato al volume di Mauro Bersani, Gadda. La vita e le opere, Einaudi, Torino 2003.

      Informazioni sulle messe in scena degli spettacoli teatrali: Ciò esula è stato messo in scena da Elisabetta Pozzi nel 2001 al Teatro Due di Parma e nel 2002 al Teatro Duse di Genova, regia di Walter Le Moli, musiche di Riccardo Barbera, Franco Piccolo e Marcello Liguori. Dello spettacolo è stata pubblicata la registrazione audio: ELISABETTA POZZI in Ciò esula di Ludovica Ripa di Meana (cd audio dello spettacolo ¿ musica Franco Piccolo), Luca Sossella editore, Roma 2003.

      273 Di Teodia è stata eseguita una lettura scenica nel 2003 da Franco Branciaroli al Teatro Manzoni di Calenzano.

      Kouros è stato messo in scena nel 2004 al teatro Belli di Roma (all¿interno della rassegna di teatro omosessuale «Garofano verde») dalla compagnia Società per Attori, con Vinicio Marchioni (Ludovico), Maurizio Palladino (padre / corifeo), Stefano Quatrosi (madre), Giandomenico Cupaiuolo (l¿attore), Benedetto Sicca (Giada), Simone Faloppa (Bob), Luca Carboni (Savino / Alvaro), regia di Giuseppe Marini. E replicato poi a Milano nel 2006 al Palazzo della Ragione all¿interno della manifestazione «Progetto Blu» del Teatro Franco Parenti.

      Il principe furente è stato messo in scena nel 2007 al Teatro San Genesio di Roma dalla compagnia Ne¿ Nuvole Ne¿ Orologi, con Valentino Villa, regia di Marco Angelilli, scene di Francesco Mari, disegno luci di Gill McBride, costumi di Marco Idini.

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