Nel saggio, si descrive la tradizione - elencandone i codici e le stampe in successione cronologica - del sonetto adespoto "Dimme, cor mio, non mio ma di colei", pubblicato da Angelo Solerti fra le "Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite" (1909), e si passano in rassegna le possibili ipotesi circa la sua paternità. In merito al primo aspetto, l'A. ritiene che la 'varietà di relazioni [tra manoscritti] e l'assenza di errori significativi non consentono di formulare uno stemma e quindi di procedere a una restitutio textus su base lachmanniana. Il testo si costituisce pertanto dal confronto fra i testimoni disponibili, prediligendo, nei casi di lezioni equivalenti, quella di H [manoscritto conservato a Berlino], che propone un numero decisamente minore di lezioni singolari e si presenta dunque meno incline a manipolazioni'. Riguardo il secondo aspetto, invece, l'A. nega l'attribuzione a Francesco Petrarca come al rimatore veneto Giovanni Antonio Romanello, all'autore bolognese Gregorio Roverbella e a Francesco del Maestro Agnolo da Pesaro, esprimendosi a favore dell'anonimato
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