NOMADAS.1 | REVISTA CRITICA DE CIENCIAS SOCIALES Y JURIDICAS | ISSN 1578-6730

Paul Felix Lazarsfeld: Quel che direbbe l'avvocato del biavolo
[Sandro Landucci e Alberto Marradi] (*) (**)

1. Altri saggi in questo volume documentano la ricchezza dei contributi di Lazarsfeld nei campi più vari sia dal punto di vista metodologico sia da quello delle applicazioni sostanziali.

Si può dire che se nelle generazioni precedenti erano comparsi molti epistemologi, molti statistici e qualche esperto nella rilevazione di proprietà specifiche delle scienze umane (come Wundt, Thorndike, Cattell, Thurstone), con Lazarsfeld nasce la figura del metodologo a tutto tondo. A tutto perché si occupa con pari attenzione, e promuovendo sviluppi altrettanto fecondi, del disegno della ricerca, del lavoro sul campo, delle relazioni fra variabili, di strumenti per rilevare e analizzare il mutamento.

Non manca di inquadramento epistemologico, avendo preso attenta visione delle opere del Circolo di Vienna; ma anche prima di varcare l’Atlantico — nella celebre ricerca sui disoccupati di Marienthal (Jahoda, Lazarsfeld e Zeisel 1933) — e poi nei fruttuosi anni della piena maturità negli Stati Uniti, Lazarsfeld affianca a queste basi epistemologiche un’intensa attività di ricerca e ne prende spunto per delle riflessioni originali, anziché limitarsi ad applicare i dettami epistemologici del momento senza preoccuparsi della loro adeguatezza. Inoltre ricostruisce con partecipazione lo sviluppo del sapere metodologico specifico delle scienze umane, traendo spunti anche dalle acquisizioni dei maggiori sociologi per la sua opera di sistemazione degli strumenti metodologici fin lì acquisiti.

Un facile termine di paragone nello stesso periodo è George A. Lundberg, il quale invece sostiene che le scienze umane devono fare piazza pulita delle acquisizioni dei classici e imitare integralmente le scienze fisiche — interpretate secondo i canoni operazionisti — se vogliono "percorrere lo stesso cammino fino agli attuali cospicui trionfi" (1929, 97).
 
 

2. I meriti di Lazarsfeld nei confronti della metodologia delle scienze sociali sono quindi altissimi, al punto che — a un quarto di secolo dalla scomparsa — si potrebbe pensare al convegno Lazarsfeld: un classico marginale? come l’inizio si un processo di beatificazione. Reso il nostro doveroso tributo, sintetico per non dilungarci in cose dette in altri saggi ma non per questo meno convinto, all’opera di Lazarsfeld, ci vorremmo ritagliare un ruolo previsto in tutti i processi di beatificazione: quello dell’avvocato del diavolo, che mette in evidenza i lati bui nella vita e nelle opere del futuro beato, per mettere il tribunale di fronte a quello che gli anglosassoni chiamano a balanced record, evitando così che il processo si trasformi in una mera celebrazione agiografica — cosa che presenta sempre alti rischi in un’ottica secolare.

Dovendo anticipare una rappresentazione sintetica della sostanza dei nostri rilievi, che illustreremo in dettaglio nei paragrafi che seguono, si potrebbe dire che imputiamo a Lazarsfeld un’insufficiente chiarezza (nel senso dell’inglese sharpness) nell’uso dei concetti e dei termini che trova o introduce. Questa chiarezza insufficiente, cui accennano vari saggi in questo volume, ha lasciato pesanti tracce, tuttora molto ben visibili, nella pratica e nel linguaggio della sociologia empirica di matrice americana (e di derivazione europea), che gli è ampiamente debitrice.

Con una formula sintetica di facile effetto si potrebbe dire che Lazarsfeld è uno dei padri della sociologia empirica contemporanea, e come tale le ha trasmesso pregi e difetti.

Anche a questo titolo è facile trovare un termine di paragone nei contributi — altrettanto vasti anche se non sempre altrettanto corposi — di un metodologo della generazione immediatamente successiva, Donald T. Campbell, che ha sempre operato interventi di scintillante acutezza e precisione, talvolta mostrando i limiti di strumenti che la pratica della ricerca aveva ripreso proprio da Lazarsfeld. Sarebbe forse ingeneroso però imputare a Lazarsfeld anche un deficit di spirito critico a petto di Campbell, visto che il secondo poteva valersi di un ventennio di risultati empirici nell’applicazione dei contributi del primo.

Nei paragrafi che seguono illustreremo le nostre riserve con qualche citazione dalle fonti.
 
 

3. Tra i difetti più gravidi di conseguenze è la mancata distinzione tra i concetti e i vettori di cifre che li rappresentano nella matrice, cioè le variabili. Lanciando o adottando (vedi 1958) espressioni come ‘variabile latente’ (ai nostri occhi una contradictio in adiectu), Lazarsfeld ha legittimato un’abitudine terminologica che schiaccia i concetti sulle variabili che stanno in una matrice dei dati, consentendo di considerare i primi integralmente rappresentati ed esauriti dalle seconde. Il suo uso dell’espressione ‘variabile interveniente’ (coniata di fresco dai behavioristi per liberalizzare il semplicistico modello S Þ R: vedi ad es. McCorquodale e Mehl 1948; Tolman 1951) sembra talvolta denunciare qualcosa di peggio di un artificio terminologico: una vera incapacità di distinguere tra ciò che accade nella realtà e ciò che si pone nel modello, fra chi osserva e ciò che si osserva: "Le informazioni sull’atteggiamento mentale degli intervistati sono state chiamate ‘variabili intervenienti’ poiché s’interpongono, per così dire, tra la reazione di un individuo e la situazione in cui egli si trova" (1948/1967, 553).

Il retroterra filosofico di Lazarsfeld gli permetteva sicuramente di distinguere fra un’entità della sfera del pensiero e un’entità della sfera dei segni. Se lo avesse fatto, distinguendo concept da variable (e dall’ambiguo variate), la sua autorità avrebbe probabilmente posto un freno alle tendenze reificatrici del comportamentismo dominante.

Dagli stessi timori (di apparire filosofico, quindi non-scientifico) è ispirata l’operazione che Lazarsfeld compie coniando l’espressione property space. Nel 1936, Hempel e Oppenheim avevano pubblicato un saggio che riproponeva all’attenzione del mondo scientifico la tipologia come strumento concettuale. Qualche anno dopo, Lazarsfeld scrive un pregevole saggio, ricco di innovazioni, sull’argomento (Lazarsfeld e Barton,1951). Ma ha paura di apparire europeo, ammuffito, filosofo al suo nuovo pubblico americano. Quindi lancia i neologismi attribute space e property space contravvenendo al mai abbastanza lodato principio occamiano di parsimonia (mai due termini per lo stesso concetto).
 
 

4. Pur avendo dato il maggior contributo all’istituzionalizzazione del termine ‘indicatore’ (prima di lui usato sporadicamente da sociologi positivisti e operazionisti), l’uso che Lazarsfeld fa di questo termine lascia intravedere vari aspetti a nostro avviso criticabili dell’intensione del relativo concetto.

Un possibile rilievo riguarda il rapporto tra indicatori e definizioni operative. Nella nostra visione, si immaginano indicatori di un concetto quando questo non suggerisce direttamente una definizione operativa o ne suggerisce una per qualche motivo inaccettabile (Marradi, 1994 § 8). Quindi la necessità di dare una definizione operativa di un concetto di proprietà, per poterlo inserire come vettore in una matrice, è costitutiva del concetto di indicatore come viene usato nelle scienze umane (se non si ricorresse a matrici, e quindi a definizioni operative, basterebbe il concetto di indicatore come lo usiamo nella vita quotidiana: il rossore è un indicatore di imbarazzo).

Ma nei fondamentali saggi dedicati al problema della scelta degli indicatori (Lazarsfeld 1958, 1959; Lazarsfeld e Barton 1951, 1955), Lazarsfeld ignora completamente il ruolo della definizione operativa. In uno di questi lavori, parla di "indicatori espressivi che sono virtualmente equivalenti a quella che viene chiamata una definizione operativa" (1959/1967, 204). Ma questo, come altri che abbiamo già visto e altri che vedremo, è un errore categoriale (Ryle, 1949): un indicatore è un concetto, e non può essere equivalente a una definizione operativa, che è un complesso di regole, di convenzioni, di stipulazioni (oltre che — se si vuole adottare un’accezione estensiva del termine — di azioni che applicano regole e convenzioni).

Sempre in tema di indicatori, Lazarsfeld commette un errore categoriale ben più grave, anche perché esplicitamente dichiarato e ripetuto con convinzione anziché inferito dalle sue omissioni e da qualche dichiarazione occasionale: si tratta della nota tesi sulla natura probabilistica della relazione tra concetto e indicatore (v. 1954, 1955b, 1958, 1959, 1961).

Ma una relazione probabilistica può intercorrere solo fra eventi (più esattamente, fra un evento o classe di eventi, e un altro evento, o classe di eventi, combinazione di eventi, o combinazione di classi di eventi). Al contrario, un rapporto di indicazione intercorre fra due concetti: siamo nella sfera del pensiero, non nella sfera della realtà.

Anche in questo caso, come in altri già visti o che vedremo, il senso dell’errore di Lazarsfeld non è accidentale: si tratta sempre di comprimere il ruolo della sfera del pensiero, trasferendo ad altra sfera strumenti e operazioni che le pertengono, vuoi con manipolazioni concettuali, vuoi con meri artifici terminologici. In questo Lazarsfeld si inserisce perfettamente nella temperie che ha dominato almeno due terzi di questo secolo, e che ha come massime espressioni la semantica estensionale di Russell e Quine e la "svolta linguistica" di Wittgenstein, Heidegger, Foucault e innumerevoli altri.

Si obietterà che per ‘natura probabilistica della relazione tra concetto e indicatore’ Lazarsfeld intende solo dire che "è probabile... che un uomo prudente... si assicuri contro tutti i rischi che corre" (1958/1969, 44). Ma è proprio questo il punto. Questa considerazione di senso comune può essere alla base di una ragionevole scelta del concetto ‘numero di assicurazioni stipulate’ (o ‘importo annuale dei premi delle assicurazioni stipulate’; o ‘proporzione del reddito destinata a premi assicurativi’) come indicatore del concetto ‘prudenza’. Ma il rapporto di indicazione intercorre fra i suddetti concetti; la considerazione di senso comune è solo uno dei possibili fondamenti della decisione di istituire quel rapporto.

Il ricercatore può avere osservato o meno che certi eventi sono più probabili alla luce di certi altri; e può dare a questa sua eventuale osservazione maggiore o minor peso in una decisione che ha luogo nella sua mente (o nel confronto fra varie menti in una discussione di gruppo) e che riguarda il grado percepito di sovrapposizione semantica fra due concetti.

Come osserva lo stesso Lazarsfeld (1959/1967, 196), un rapporto di indicazione tra due concetti può essere istituito in base a una mera analisi della loro intensione, oppure in base a una riflessione su specifiche situazioni fattuali che mostrano il rapporto fra le proprietà cui si riferiscono detti concetti. Rapporto che può essere di causa ad effetto (l’isolamento professionale influenza la percentuale di scioperi: l’effetto viene assunto come indicatore della causa), di effetto a causa (la qualità della vita dipende anche dall’inquinamento atmosferico: una causa viene assunta come indicatore dell’effetto) o di mera concomitanza (avendo osservato che un paranoico compie più di frequente certi movimenti del corpo, pur non riuscendo a stabilire alcun plausibile nesso causale fra la proprietà ‘frequenza del movimento x’ e la proprietà ‘grado di paranoia’, adottiamo la prima come indicatore della seconda).

Focalizzando l’attenzione sulla funzione esplicativa degli indicatori (1959), sulla loro funzione predittiva (1959), e soprattutto sulla natura probabilistica del rapporto (fra classi di eventi; vedi sopra), Lazarsfeld mostra di collocare sullo stesso piano il rapporto di indicazione (che di solito non si raffigura in un modello, e che è sottoponibile a controllo empirico solo in forma indiretta e mediata dalle valutazioni del ricercatore e della comunità scientifica) e un qualsiasi rapporto empirico (di covariazione o causazione) fra concetti di proprietà, che si raffigura in un modello e si sottopone direttamente a controllo empirico, con esiti considerati generalmente conclusivi entro quella data ricerca.

Per mostrare le conseguenze negative di un simile livellamento di piani, riportiamo per esteso un brano di Lazarsfeld cui si è fatto cenno sopra: "l’isolamento professionale porta ad una forte sensazione di sofferenze condivise; questo rende favorevoli al sindacato; i dirigenti sindacali tendono ad organizzare scioperi; di conseguenza l’isolamento professionale generalmente porta gli scioperi. Da questo possiamo trarre, come minimo, tre livelli di indicatori: mancanza di contatto con altri elementi della comunità; sentimenti riguardo alle ingiustizie; attitudine ad associarsi" (1959/1967, 196).

Come è noto ai lettori meno giovani, negli anni ’50 e ’60 gli editori avevano molte remore a stampare disegni perché ciò comportava impiego di manodopera specializzata. Se non fosse stato per questo, si può ritenere probabile che Lazarsfeld avrebbe disegnato questo modello:
 
 


 
 

L’atteggiamento corrente di un ricercatore verso questo modello sarebbe sottoporlo a controllo empirico fornendo definizioni operative, magari attraverso (altri) indicatori, delle 4 variabili raffigurate, e ponendole poi in relazione mediante le adeguate tecniche di analisi bivariata e multivariata. La scelta compiuta da Lazarsfeld di considerare la propensione ad aderire agli scioperi come indicatore di isolamento professionale sottrae in larga misura al controllo empirico questa interessante intuizione.

Abbiamo appena visto che Lazarsfeld non sembra distinguere con sufficiente chiarezza fra a) indicatori e definizioni operative, b) rapporti di indicazione e rapporti empirici. Ci si aspetterebbe che avesse chiara la distinzione fra indicatori e indici, dato che gli si può attribuire il grande merito di avere per primo fissato e distinto chiaramente nel linguaggio tecnico delle scienze sociali i significati di questi due termini, che prima erano usati in modo intercambiabile e/o con accezioni diverse. Capita invece di imbattersi, nella grande produzione del Nostro, in brani in cui il termine ‘indice’ — che in quei casi riportiamo in corsivo — è inequivocabilmente usato in luogo del termine ‘indicatore’: "Per tutta la durata dello studio raccogliemmo indicatori atti a valutare l’interesse degli intervistati. Si studiarono attentamente tutte le interrelazioni pertinenti, allo scopo di stabilire quale tipo di misurazione fosse meglio usare. A conclusione di quest’analisi si decise che il miglior indice dell’interesse dell’intervistato era la valutazione che egli stesso ne dava" (Lazarsfeld, Berelson e Gaudet, 1944/1967, 713). "Bisogna prendere con qualche riserva le cifre nude e crude, perché sono basate solo su quest’unico indicatore qualitativo; ma il confronto tra i gruppi è talmente significativo da rendere superfluo, a questo fine, qualunque altro indice" (Lazarsfeld e Barton,1951/1967, 257). "E’ possibile costruire una tecnica di misurazione facendo uso di modelli matematici o tramite qualche altro tipo di ragionamento meno complesso; ma non esiste alcun criterio che la possa convalidare. Non vi è nessun singolo indice, fra tutti quelli possibili, che sia a priori più rilevante degli altri. La medesima idea avrebbe dovuto venire applicata alla misurazione delle tendenze criminali: partendo da un’analisi concettuale, sarebbe necessario creare degli indici di aggressione, disprezzo per la legge, etc." (1961/1967, 61). In quest’ultimo brano il termine ‘indice’ è usato in due accezioni interamente differenti — la prima impropria, la seconda propria — nell’arco di poche righe.
 
 

5. Altre due pessime abitudini terminologiche perduranti nelle scienze umane contemporanee che Lazarsfeld, se non proprio inaugura, certo legittima con la sua autorevolezza, sono l’uso estensivo del termine ‘misurazione’ e l’uso del termine ‘qualitativo’ in due accezioni radicalmente diverse.

Alla "analisi qualitativa" Lazarsfeld dedica un saggio (Lazarsfeld e Barton 1955) nel quale usa talvolta l’aggettivo ‘qualitativo’ — che segnaliamo in corsivo — in un’accezione che sembra riferita a variabili categoriali non ordinate. Vediamone un esempio: "Questo discorso vale, in particolare, per l’analisi dei dati non-quantitativi, cioè per quella analisi che spesso viene definita ‘analisi qualitativa’" (Lazarsfeld e Barton,1955/1967, 308). Nella maggior parte dei casi, peraltro, l’aggettivo ‘qualitativo’ è attribuito a osservazioni e descrizioni effettuate senza ricorrere alle procedure standard con cui si costruisce una matrice dei dati. Ecco alcuni esempi: "Un altro tipo di osservazioni qualitative è stimolante perché noi vediamo in esso delle indicazioni di fenomeni su vasta scala che non riusciamo a percepire direttamente" (ivi, 317). "La ricerca che non ha né valore statistico né strutturazione sperimentale, la ricerca basata soltanto sulle descrizioni qualitative di un piccolo numero di casi, può ciononostante avere l’importante funzione di suggerire una possibile relazione causa-effetto e persino processi dinamici" (ivi, 337).

Ci sono anche casi in cui è difficile stabilire in quale accezione è usato il termine. Giudichi il lettore: "Possiamo indicare qui tre situazioni di cui una fa particolare riferimento agli indicatori qualitativi" (ivi, 318). "E’ probabile che ci siano diversi gradi o fasi di conferma qualitativa" (ivi, 367).

Come si diceva, questa duplice accezione del termine, con una netta prevalenza della seconda, è esattamente quello che troviamo nelle scienze sociali attuali. Lo stesso si può dire per l’uso estensivo del termine ‘misurazione’.

Iniziamo con un brano che mostra come Lazarsfeld, laureato in matematica, sia pienamente consapevole della natura estensiva di tale uso: "Il sociologo parla di ‘misura’ in senso più ampio del fisico o del biologo. Quando si osserva che all’interno di un’organizzazione un certo reparto manifesta un grado di soddisfazione sul lavoro più elevato di un altro, si dice di aver effettuato una misurazione, anche se questa non è espressa da un numero. In generale, si cercherà comunque di arrivare a delle misure, nel senso tradizionale del termine, con la costruzione di metriche precise. Si osservano già alcuni progressi in questo campo; ma ci troviamo ancora nella fase iniziale di queste ricerche formali, che d’altra parte corrispondono soltanto a una parte molto limitata dell’insieme delle operazioni di misura utilizzate nella pratica" (1958/1969, 41).

Il caso più frequente di uso estensivo, in Lazarsfeld come nelle scienze sociali contemporanee, si ha quando il termine di specie (‘misurazione’) sta per l’espressione di genere (‘rilevazione di stati su proprietà mediante assegnazione di valori simbolici’). La misurazione infatti non è che una delle procedure con cui si effettua tale rilevazione. Ecco alcuni esempi: "Nelle osservazioni qualitative si può trovare un indice di alcune variabili generali che vogliamo studiare ma che non possiamo misurare direttamente" (Lazarsfeld e Barton,1955/1967, 311). "Quasi tutti i concetti classificatori hanno origine nel modo seguente: si osservano alcune variazioni empiriche; esse debbono essere spiegate da una nozione più generale, un ‘tratto sottostante’. Gli indicatori di questo tratto indicano la nuova unità da costruire, ma la loro scelta è dettata dall’osservazione iniziale. In molte misurazioni di questo genere c’è, con tutta probabilità, una secolare tendenza al predominio degli indicatori espressivi su quelli predittivi" (1959/1967, 197).

Lazarsfeld può usare il termine anche per procedure più specifiche, come la rilevazione di una dimensione continua mediante uno strumento atto a produrre dicotomie: "Prendiamo come esempio di un fattore ordinale abbastanza complesso la ben nota distinzione tra estroversione e introversione. Uno dei metodi per misurarla è quello di descrivere a tinte forti una persona che corrisponde all’idea dell’estroversione totale, e dare uno standard corrispondente per l’idea di introversione" (Lazarsfeld e Barton,1951/1967, 270).

Il termine è usato però anche in frasi che fanno pensare piuttosto a una scelta di indicatori: "La riflessione e l’analisi che precedono la costruzione di uno strumento di misurazione nascono generalmente da una rappresentazione figurata. Il ricercatore, analizzando i dettagli di un problema teorico, abbozza dapprima una costruzione astratta, un’immagine" (1958/1969, 42). Oppure a una scelta di indicatori seguita dalla costruzione di indici: "Molti campi di ricerca usano un tipo di misurazione che chiameremo procedimento dei test composti di più elementi, consistente nel fare osservazioni di tipo qualitativo su di una persona e poi nell’attribuire loro una certa ‘misura’ per potere raffrontare la persona presa in considerazione con altre persone sottoposte allo stesso test" (1954/1967, 447).

Si trovano anche passi in cui ‘misura’ è usato in luogo di ‘coefficiente’ o di ‘valore caratteristico’: "Misure come la correlazione o la varianza hanno un significato definito specificamente al livello del gruppo, mentre le misure come le medie e le percentuali possono avere o non avere significato parallelo a livello individuale o a livello collettivo" (Lazarsfeld e Menzel, 1961/1967, 379).

E si trova anche un passo in cui Lazarsfeld usa il termine in modo da commettere un errore categoriale: "Alcuni studi hanno mostrato, per esempio, che strati sociali diversi hanno atteggiamenti palesemente contrastanti su questioni economiche e politiche. Ma cosa sono gli "strati sociali" e come dovrebbero essere misurati? Potremmo usare indicatori come il reddito, l’istruzione, i beni dell’intervistato" (Lazarsfeld e Thielens, 1958/1969, 99). Si tratta di un errore categoriale perché gli strati sociali sono, gnoseologicamente, oggetti (cioè entità di cui si predicano attributi) e non stati su proprietà (attributi che si possono predicare di entità). La proprietà sarebbe ‘strato sociale di appartenenza’.
 
 

6. Le nostre riserve su Lazarsfeld non sono tutte di ordine gnoseologico o terminologico. Abbiamo anche una riserva metodologica, che investe la sua spiccata e dichiarata preferenza per le dicotomie.

Nel suo saggio, Ricolfi gli attribuisce il merito di aver tematizzato relazioni complesse fra variabili categoriali, laddove prima ci si era per lo più limitati all’analisi di tabelle a doppia entrata. Ma le mutabili di cui ama occuparsi Lazarsfeld di categorie ne hanno solo due; se la proprietà è continua (come l’età) o è politomica, tende inesorabilmente a dicotomizzarla. Ecco alcuni passi in cui manifesta questa preferenza: "Abbiamo… a che fare con tre variabili: l’età, l’istruzione e il tipo di ascolto. Per semplificare le cose, abbiamo trasformato ciascuna variabile in una dicotomia" (1955a/1967, 394). "Le osservazioni possono essere di vari tipi. Per esempio: Ha un particolare comportamento in una certa situazione? Risponde sì o no ad una determinata domanda? Ha fatto una particolare esperienza? In teoria, non è necessario limitare queste rilevazioni a dicotomie — si potrebbe operare con domande che ammettano le risposte ‘sì’, ‘no’ e ‘non so’. Tuttavia, per semplificare la trattazione, assumeremo in questo scritto che tutti gli elementi siano di natura dicotomica" (1954/1967, 447). "Il primo genere [di attributi] può essere definito ‘attributo dicotomico’, con il che si intende un attributo che può esser giudicato solo come appartenente o no a un oggetto… In molti luoghi la gente è o protestante o cattolica, o nera o bianca, o della classe media o della classe operaia" (Lazarsfeld e Barton, 1951/1967, 260).

Lazarsfeld ha avuto occasione di motivare ampiamente questa preferenza commentando una critica al suo noto articolo sulle regressioni con predittori dicotomici; in tale occasione afferma: "In sociologia molte variabili sono dicotomie naturali, come il sesso, bianco/non bianco o le pattern variables di Parsons. Da un punto di vista didattico preferisco introdurre gli studenti all’analisi dei dati di sondaggi partendo dalle dicotomie, che sono più semplici da capire per il non specialista. Perché appesantire il sociologo principiante con le statistiche pearsoniane che di solito non capiscono?… Nel seguire questa linea, non solo sono l’erede dell’approccio classico di Yule e Kendall; tengo anche la mia analisi più vicina alla logica simbolica… In effetti la mia ‘algebra dicotomica’ è vicina all’algebra di Boole con l’aggiunta di un solo concetto: il valore numerico dell’intersezione di due insiemi finiti è descritto da un numero reale" (1972, 425-6).

Esponiamo le nostre riserve seguendo il filo dell’argomentazione dell’autore, e inserendo anche riferimenti ai tre brani precedenti:

— sostenendo che ‘bianco/non bianco’ è una dicotomia naturale Lazarsfeld mostra di essersi ormai perfettamente acculturato nella sua nuova patria, e inoltre di usare reti a maglie piuttosto ampie; il fatto che già nel ’51 (brano citato poco sopra) consideri alternative dicotomiche la confessione religiosa (o protestante o cattolico), la razza (o bianco o nero) e la classe di appartenenza (operaia o media) mostra che l’acculturazione è stata davvero rapida;

— a rigore, le pattern variables sono dimensioni continue, che Parsons etichettò in modo dicotomico solo per motivi pratici; le sottopose quindi, per accettabili motivi di semplificazione concettuale, allo stesso trattamento cui Lazarsfeld sottopone (per motivi esclusivamente pratici, e con le possibili conseguenze negative che vedremo) l’età (primo brano di 1955a);

— la lunga esperienza didattica di uno dei presenti autori non corrobora affatto il giudizio di maggiore comprensibilità delle tecniche di analisi tabulare dicotomica rispetto alle tecniche di analisi cardinale: anzi sono queste ultime a essere capite meglio, se insegnate con l’adeguato supporto grafico (il diagramma a dispersione);

— Yule rivalutava, in polemica con Galton-Pearson, non tanto le dicotomie, ma le variabili categoriali in generale, dicotomie incluse (Yule 1911; Yule e Kendall 1940);

— senza dubbio l’algebra dicotomica di Lazarsfeld è più vicina all’algebra booleana. Non capiamo perché questo sia particolarmente rilevante agli effetti della scelta di privilegiarla in sede di raccolta e di analisi dei dati.

Saliamo ora dalle critiche al brano specifico alle annunciate riserve sulla generale scelta metodologica di registrare e trattare come dicotomie proprietà che dicotomiche non sono. Tali riserve sono di tre generi:

a) ogni volta che si riduce una proprietà non dicotomica a una variabile dicotomica si incorre in un’ingiustificata perdita di informazione. E’ come vedere la realtà in bianco e nero, non solo perdendo i colori, ma anche le sfumature di grigio. Tale perdita è tanto più grave:

— quanto più è alta (nelle variabili categoriali) la percentuale di dati che cadono nelle categorie sacrificate dalla dicotomizzazione;

— quanto più forte (semanticamente condiviso e significativo) è l’ordine fra le categorie della variabile che viene dicotomizzata;

— (nelle variabili cardinali e quasi cardinali) quanto meno è simmetrica la distribuzione dei dati entro il campo di variazione della variabile.

b) in conseguenza di questa perdita di informazione, può capitare che la natura della relazione tra due proprietà venga completamente alterata: il caso più ovvio — di cui un esempio è riportato in Marradi 1997, § 1.5 — è l’assoluta non-rilevabilità di una qualsiasi relazione non lineare fra le variabili dicotomizzate;

c) come Gangemi (1977) e Marradi (1997, §§ 1.2 e1.3) hanno mostrato, entro la nutritissima schiera dei coefficienti che rilevano la forza delle relazioni fra due dicotomie non ce n’è uno che dia risultati accettabili quando le dicotomie presentano distribuzioni di frequenza pesantemente sbilanciate.

Questo risultato, di cui si forniscono i motivi matematici e che quindi non è accidentale (non dipende da una scelta maliziosa di particolari distribuzioni congiunte) è stato raggiunto analizzando relazioni bivariate, ma naturalmente si riverbera su tutte le tecniche per l’analisi multivariata di dicotomie.
 
 

7. A parte le riserve metodologiche espresse nel paragrafo precedente, le nostre critiche a Lazarsfeld sono — come si anticipava nel par. 2 — concettuali e terminologiche.

Alcune sue confusioni concettuali sono decisamente gravi, al punto da configurare un errore categoriale: il rapporto di indicazione definito probabilistico, e talvolta confuso con un rapporto di causazione (sopra, par. 4); la sovrapposizione di concetti e variabili (sopra, par. 3) — quest’ultima derivata dal comportamentismo.

In altri casi Lazarsfeld sembra non caratterizzare bene concetti che egli stesso ha contribuito a sviluppare (come quando non distingue chiaramente gli indicatori dalle definizioni operative o dagli indici: sopra, par. 4), ma non cade in errori categoriali.

In altri casi — che abbiamo affrontato nel par. 5 — si tratta soprattutto di un uso assai estensivo e poco rigoroso di termini come ‘misurazione’ e ‘qualitativo’. Un caso del genere è l’adozione acritica del concetto di campionamento a proposito della scelta di indicatori — un abuso terminologico introdotto, come è noto, da Guttman (1944; 1950). Per la verità, è un uso estensivo non caratteristico di Lazarsfeld; tuttavia egli vi indulge in passi come questo: "[Il ricercatore] poi procede ad una specificazione del significato sviluppando il suo universo di indicatori, processo in teoria illimitato. A fini di ricerca noi dobbiamo dunque lavorare con sottogruppi di questo universo — "campioni" di indicatori possiamo dire usando la parola campione con una certa ampiezza. I vari test di intelligenza, per esempio, sono campioni diversi dello stesso tipo" (1959/1967, 212).

Ecco: pur avendo innovato in molti campi della metodologia, Lazarsfeld non esercitava un costante atteggiamento critico verso la vulgata del suo mestiere, inclusi certi assunti necessari ad applicare i beneamati modelli matematici: "Le due ipotesi fondamentali implicite nel modello (…) sono, innanzi tutto, che entro una classe latente omogenea x la frequenza di risposte positive a ciascuna domanda i tende alla probabilità latente della classe px e, in secondo luogo, che entro una simile classe omogenea la risposta a una domanda è indipendente dalla risposta a qualsiasi altra domanda" (1954/1967, 472). Chiunque abbia un minimo di pratica di ricerca (oppure rifletta in poltrona, ma armato di buon senso anziché di modelli matematici) dovrebbe sapere che un assunto del genere è del tutto improponibile.

Se è vero che per essere santificati bisognerebbe essere anche un po’ eroi e un po’ martiri (altrimenti è troppo facile), diremo che Lazarsfeld — se talvolta è stato eroe in quanto innovatore — è mancato sempre (nella concettualizzazione e nella scelta dei termini, se non nella pratica) della capacità, o del coraggio, di essere martire, cioè di andare contro la corrente behaviorista che imperversava nel suo mestiere, nei suoi tempi e nei suoi luoghi. Questo, e l’enorme influenza — nel complesso più positiva che negativa — che ha esercitato nel nostro mestiere ci indurrebbe ad asserire, a commento del titolo del convegno, che Lazarsfeld, se è un classico, certo non fu marginale.


* I paragrafi 1, 3, 5 sono stati redatti da Sandro Landucci. I paragrafi 2, 4 e 6 e 7 sono stati redatti da Alberto Marradi.

** Sandro Landucci è dottorando di ricerca in Metodologia delle scienze sociali e politiche. Alberto Marradi è professore ordinario di Metodologia delle scienze sociali presso la Facoltà di scienze politiche dell’Università di Firenze.

Su questo punto insistono in particolare Agnoli e Pitrone in questo volume. Lombardo sostiene che per questa via Lazarsfeld arriva a prendere le distanze non solo dalla metodologia prescrittiva dei viennesi e loro epigoni, ma anche dal modello ipotetico-deduttivo.

2 Come per non lasciare dubbi sui suoi obiettivi di fondo, Lundberg aggiunge: «Le vie della scienza [fisica] ci attraggono fortemente sia per i risultati che si raggiungono con la scienza sia per il prestigio accademico e pubblico» (ibidem).

3 L’avvocato del diavolo può anche avere l’obiettivo di sottoporre la santità in questione a un rigido test popperiano per farla uscire temprata come acciaio. Ma non è questa la nostra interpretazione del ruolo

4 Durante il convegno Lazarsfeld: un classico marginale? Lombardo ha sostenuto che Lazarsfeld distinguerebbe fra attribute/property space, riferito a un’operazione tipicamente intensionale, quindi nella sfera del pensiero, e ‘tipologia’ come risultato dell’operazione mentale, quindi appartenente alla sfera dei segni. La distinzione sarebbe opportuna, ma non ci pare esplicitata nelle opere di Lazarsfeld.

5 O dei relativi concetti, se si condivide la tesi che un’intensione diversa comporta un diverso concetto.

6 Si commette un errore categoriale quando si predica di un oggetto (cognitivo) un (qualsiasi) stato su una proprietà che non può avere (esempi: variabile autocritica, scala deduttiva, scienza ordinale).

Si cade in una contradictio in adiectu quando si predica di un oggetto (cognitivo) uno stato che non può avere su una (qualsiasi) proprietà che può avere (esempi: variabile continua, variabile latente, scala nominale, scienza esatta).

7 Nel suo saggio in questo volume, Lombardo sostiene che Lazarsfeld non ha parlato di definizione operativa per differenziare il suo approccio da quello degli operazionisti (che la interpretavano come specificazione esaustiva del significato di un termine. Resta il fatto che — come sottolineano anche vari saggi nel volume — egli si è occupò di molte delle procedure che fanno parte di una definizione operativa, e che sono tutt’altra cosa dalla scelta degli indicatori. Se non amava l’espressione corrente avrebbe potuto proporne un’altra anziché designare referenti così vari e diversi con il termine ‘indicatore’ -- oppure lasciarli privi di designazione.

8 Su questa problematica vedi Marradi (1994, § 6).

9 A rigore, anche fra l’essere prudente (stato sulla proprietà ‘prudenza’) e l’assicurarsi contro tutti i rischi (serie di azioni, che possiamo considerare eventi) si può dire che intercorre una relazione probabilistica solo se usiamo questa espressione in un’accezione molto estensiva (sarebbe tuttavia eccessivo parlare anche in questo caso di errore categoriale, perché tanto gli eventi quanto gli stati sulle proprietà appartengono alla sfera della realtà).

10 «Alcuni indicatori esprimono il tratto sottostante» (ivi); «partendo da un’analisi concettuale» (1961/1967, 61 — l’intero brano è riportato più avanti).

11 Come del resto Stevens (1951, 47), Blalock (1961, 145), Sullivan (1974, 250), Smelser (176, 164 e 194) e molti altri.

12 Come è noto, una decina di anni dopo furono in molti (Siegel e Hodge 1968; Costner 1969; Blalock 1969) a sviluppare l’idea di stimare la validità di un indicatore mediante modelli di equazioni strutturali; altri dieci anni, e Jøreskog (1978) compiva il successivo, e più impegnativo, passo di equiparare rapporti di indicazione e rapporti empirici agli effetti del controllo mediante i modelli LISREL e le relative tecniche di analisi.

Si tratta di sviluppi cui riserveremmo le stesse critiche rivolte a Lazarsfeld. Ci si può domandare perché Lazarsfeld non abbia compiuto egli stesso tale completa equiparazione. Fra le possibili risposte, le insufficienti capacità di elaborazione elettronica del tempo, e il residuo pudore di Lazarsfeld — che aveva, come è noto, anche una formazione gnoseologica — a porre interamente sullo stesso piano relazioni fattuali e rapporti tra concetti.

13 Tuttora in statistica il termine ‘indice’ viene usato sia come sinonimo di ‘coefficiente’ (‘indice di correlazione’) sia come sinonimo di ‘tasso’ (‘indice di mortalità’).

14 Le altre sono la classificazione (con categorie ordinate o meno), il conteggio, e l’insieme di tecniche che vanno sotto il nome di scaling.

15 In questa come nelle altre citazioni, i corsivi sono aggiunti.

Si noterà che in queste poche righe Lazarsfeld usa il termine ‘indice’ in un’accezione decisamente impropria, e usa un’altra espressione discutibile (‘osservazioni qualitative’).



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